su Lamica geniale di Elena Ferrante
Autore: Leandro Piantini
Testata: Leandropiantini
Data: 11 novembre 2008
Ho l’impressione che con questo romanzo la misteriosa Elena Ferrante abbia scritto il suo libro più bello e più impegnativo. Esso è costruito con un disegno rigoroso, quasi geometrico, e racconta con grande respiro le vicende di alcuni personaggi del mondo popolare napoletano, negli anni del dopoguerra. Ed è la prima parte di un progetto che prevede il seguito della storia in altri due romanzi.
Al centro della narrazione vi sono due bambine, Raffaella Cerullo, detta Lina, e Elena Greco, detta Lenuccia o Lenù, seguite dall’infanzia alla fine dell’adolescenza. Chi racconta in prima persona è Elena, l’amica del cuore di Raffaella, da lei sempre chiamata Lila. Lila è il personaggio principale intorno a cui ruota la narrazione, una bambina “geniale”, che la narratrice ha sempre considerato dotata di qualità inarrivabili. Capisce tutto, impara tutto, e benché sia bruttina e sgraziata riuscirà crescendo a diventare perfino bella. Figlia di un ciabattino, farà un buon matrimonio con un uomo ricco. La povertà della sua famiglia non le permette di studiare mentre Elena farà studi regolari arrivando all’università.
Ho l’impressione che la Ferrante abbia pensato, nell’ideazione del libro, al romanzo di Silvia Avallone, ACCIAIO, sviluppando però una visione contraria. Lì avevamo due ragazzine di Piombino, bellissime e del tutto abbandonate dalle famiglie proletarie, che si affidano solo alla loro seduttività e all’amicizia che le lega per opporsi al vuoto di un mondo operaio allo sbando che ha perso ogni legame con il passato.
Il romanzo della Ferrante racconta invece, con un andamento da saga popolare, ricca di momenti avvincenti e spettacolari, la realtà napoletana dagli anni cinquanta in poi. Si intrecciano le storie di tante famiglie. Poveri e ricchi, onesti e malavitosi, ma uniti dalla comune radice identitaria. Chi è comunista potrà anche lottare contro i camorristi e i laurini ma è sempre pronto a trovare accordi e compromessi, a stringere amicizia con quelli del ceto opposto, come impone il codice non scritto della comunità. In questo quadro Lila fa parte per se stessa, non si sottopone ad alcuna disciplina. Ha fama di “cattiva” ma non se ne cura, non fa nulla per ingraziarsi gli altri e fa sempre quello che vuole. Per questo non è amata ma tutti la temono e l’ammirano. “Mi accorsi che i maschi mentre danzava con Rino…le tenevano gli occhi addosso come se noi altre fossimo sparite. Eppure io avevo più seno. Eppure Gigliola era di un biondo abbagliante..ma non c’era niente da fare: dal corpo mobile Lila aveva cominciato a emanare qualcosa che i maschi sentivano, un’energia che li stordiva” (pp. 138-139).
Il linguaggio della Ferrante è perfettamente funzionale allo scopo, solido e comunicativo, teso a sciogliere con limpida scansione narrativa gli ingarbugliati nodi relazionali e psicologici in cui si trova immerso, per legge naturale, chi vive a Napoli.Questo linguaggio Elena lo ha appreso da Lila, che della vita le ha insegnato tutto: “Lila sapeva parlare attraverso la scrittura. A differenza di me quando scrivevo…lei si esprimeva con frasi sì curate, sì senza un errore pur non avendo continuato a studiare, ma –in più- non lasciava traccia di innaturalezza, non si sentiva l’artificio della parola scritta…aveva l’ordine vivo che mi immaginavo dovesse toccare al discorso se si era stati così fortunati da nascere dalla testa di Zeus e non dai Greco, dai Cerullo” (p.222). Lila che, con la sua “scrittura fluida e trascinante”, “rinforzava la realtà mentre la riduceva a parole, le iniettava energia”. (p. 126). E queste sono indicazioni critiche che valgono ad identificare esattamente la magistrale operazione letteraria compiuta dalla Ferrante.
Asse del romanzo è l’idea che la cultura progressista è stata nell’ Italia del dopoguerra la grande risorsa del proletariato per uscire dal sottosviluppo. Elena ce la fa a liberarsi dal modello plebeo che ha assorbito dalla nascita perché ha studiato, e ora ha accanto Nino, operaio colto e politicizzato. Lila invece, nonostante la sue qualità eccezionali, resta prigioniera delle origini plebee perché le doti di natura non bastano a salvare dal gorgo ancestrale dell’inferiorità sociale e delle privazioni economiche. Nell’ultima scena del libro è Nino a imporre il suo punto di vista avverso alle sirene consolatorie della letteratura: “‘Se vogliamo fare i venditori di fumo’ ripeté due o tre volte molto corrucciato coi suoi nemici, vale a dire chiunque vendesse fumo, ‘facciamo romanzi, me li leggerò volentieri; ma se bisogna cambiare veramente le cose, allora il discorso è un altro’”. “Troppi cattivi romanzi cavallereschi, Lenù, fanno un Don Chisciotte; ma noi, con tutto il rispetto per Don Chisciotte, non abbiamo bisogno, qui a Napoli, di batterci contro i mulini a vento, è solo coraggio sprecato: ci servono persone che sanno come funzionano i mulini e li fanno funzionare” (p. 321).
“Quando sparì mi sembrò che fosse sparita l’unica persona in tutta la sala che aveva l’energia per trascinarmi via” (p. 326).