Ferrante, epopea del vicinato per due amiche
Autore: Massimo Onofri
Testata: Avvenire
Data: 5 dicembre 2011
Proviamo a fare finta che Elena Ferrante non sia Elena Ferrante: l'acclamata autrice di L'amore molesto e I giorni dell'abbandono. La mia sembrerebbe un'opzione alquanto paradossale: considerato che della Ferrante non si sa nulla, nemmeno se sia una donna o un uomo: quando, nella ridda delle supposizioni, si sono fatti persino i nomi di Fofi e Starnone. Epperò, si tratta di un'opzione profittevole: consentendoci di azzerare il già consistente discorso mitografico sulla scrittrice per restare al testo nella sua nuda evidenza. Che libro è, allora, a prescindere da tutto, L'amica geniale? Un libro su un'amicizia tra due bambine, poi adolescenti, ancora più indissolubile della sorellanza? Un libro di fiera e risoluta emancipazione femminile, là dove essere donne e povere vale quasi sempre come una condanna senz'appello? Un libro su Napoli appena uscita dalla seconda guerra mondiale e i suoi vicoli disperati di fame e violenza? Una grande e screziatissima metafora, avventurosa e feroce, della vita al suo primo affermarsi nel mondo? Un romanzo orgogliosamente anacronistico, quale fu La Storia di Elsa Morante, scritto com'è a controcanto di un'idea definitivamente perduta di totalità? Tanto più che, come annunciano gli editori nel risvolto di copertina, si tratta della prima tappa di un opus magnum che toccherà poi la giovinezza, la maturità, la vecchiaia incipiente delle due amiche, Raffaella Cerullo (Lila), figlia di calzolaio e Elena Greco (Lenù), figlia di usciere. Siamo ai nostri giorni quando Lenù apprende telefonicamente dal figlio di Lila che la sua amica, a 66 anni, è scomparsa: «Vediamo chi la spunta questa volta, mi sono detta. Ho acceso il computer e ho cominciato a scrivere ogni dettaglio della nostra storia, tutto ciò che mi è rimasto in mente». Ecco: la scrittura come tentativo di elaborazione di una perdita, forse d'un lutto. Una scrittura esatta e feroce, spoglia di retorica e infingimenti, appena formicolante di qualche metafora, ma sempre congrua allo sguardo di chi prima è nell'infanzia e poi adolescente. «Lila comparve nella mia vita in prima elementare e mi impressionò subito perché era molto cattiva», ma anche la cattiveria conta per sopravvivere in questa Napoli del dopoguerra: «La vita era così e basta, crescevamo con l'obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi.» Lila e Elena sono due bambine eccezionali capaci di primeggiare soprattutto a scuola, la prima grande occasione del popolo per dare l'assalto al cielo: ma solo una delle due, Lenù, ne approfitterà per emanciparsi, mentre l'altra, Lila, «secca come un'alice salata», sempre più bella, diventerà la regina del quartiere, ma, negata dalla famiglia gli studi che coltiverà di nascosto, affiderà all'amica più fortunata il compito, per così dire, di riscattarla. Falegnami, ferrovieri-poeti, fruttivendoli, pasticcieri e baristi, vedove pazze, e un cattivo di turno, don Achille: per un quartiere che si congestiona nella vanteria, nel risentimento, nell'invidia e nell'odio, persino nell'omicidio. Si potrebbe dire: un'epopea del vicinato, secondo la formula che, all'inizio del secolo scorso, Borgese vaticinò per la scrittrice tardo-verista Maria Messina. E che può impiegarsi qui anche per L'amica geniale. Non un romanzo, allora, ma il regno di ciò che, in tempo di realismi e solide verità, esso fu. E che non sarà mai più.