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Lila, una vita in dissolvenza

Autore: Maria Pia Ammirati
Testata: Mobydick Libri
Data: 21 novembre 2011

Forse si potrebbe partire, per commentare l'ultimo romanzo di Elena Ferrante L'amica geniale, dal termine smarginatura. Parola che l'io narrante spiega in maniera chiara e meticolosa proprio a metà del romanzo. La smarginatura è una sensazione, uno stato d'animo dell'amica geniale, la giovane Lila amica di Elena, voce narrante, un modo di improvvisa rivelazione e conoscenza del mondo che s'insinua nell'animo del personaggio in un momento preciso dell'esistenza per poi, trovato il varco, insediarsi come malessere e sottofondo dell'esistenza. Lila sente e poi teorizza la smarginatura: «il 31 dicembre del 1958 Lila ebbe il suo primo episodio di smarginatura… in quelle occasioni si dissolvevano all'improvviso i margini delle persone e delle cose». Non sembri peregrino ma la smarginatura è proprio una parola fondante della ricchezza narrativa della Ferrante, racchiudendo insieme, e facendo la sintesi, della forza espressiva della scrittrice e della dirompenza delle storie a cui ci ha abituati negli anni. E per andare fino in fondo a questa breve pista, la smarginatura coglie il senso della dissoluzione e della deformazione, quella parte concreta dell'oscenità di vivere come atto e come linguaggio. La rivelazione dei nostri contorni labili e della repulsione di fronte al movimento, a volte percepito come estraneo, del mondo. E la rivelazione del mondo così com'è, lo scollamento di sentirlo come un'appartenenza, e che la giovane protagonista vede in una forma di visionarietà vicina e intima a quella di un'altra grande scrittrice napoletana come Anna Maria Ortese. Vedere il mondo come estraneo e violento, sentirne la forza di repulsione è questa la smarginatura che percorre fisicamente il corpo dell'adolescente Lila, il distacco: «un senso di repulsione aveva investito tutti i corpi in movimento… la frenesia che li scuoteva. Come siamo malformati, aveva pensato, come siamo insufficienti… il tumulto del cuore l'aveva sopraffatta si era sentita soffocare». Una parola non solo non marginale ma che si porta dietro una serie di corollari semantici come repulsione e distacco che sono l'intima struttura di questo straordinario romanzo. Elena Ferrante è un caso unico nel panorama della narrativa italiana, il caso di una scrittrice ostinatamente lontana dalle cronache al punto da rinunciare all'identità svelata: ancora oggi della Ferrante non si hanno il volto e il nome. Ancora oggi l'esercizio mondano è quello di cercarne l'identità dietro altri scrittori. Dal suo esordio che la impose senza potentati editoriali con L'amore molesto (1992) fino a I giorni dell'abbandono (2002), lo stile e le ossessioni non sono stati rimpiazzati, la forza espressiva della lingua, lo scavo impietoso sui personaggi non si è fermato in quest'ultimo romanzo che però, secondo noi, segna una tappa. Resta la brutalità della vita certo come indagine, ma si sposta, anche come impianto narrativo, dal microcosmo di personaggi schiacciati nel qui e ora, allo scenario di vita da raccontare sul profilo di una lunga Storia. Dalla forza, diremmo, dell'azione drammatica come la storia della protagonista dei Giorni dell'abbandono, o come il ritorno alle origini sulle tracce di una madre non amata nell'Amore molesto, alla vita seguita nel suo percorso di formazione di Elena che nasce nei vicoli di Napoli e crescendo sente la smarginatura, senza capirla fino in fondo, sente cioè il desiderio di separarsi da quell'ambiente e da quel mondo per il quale prova repulsione. È ancora una volta la lingua, il napoletano, questo miscuglio di forza e volgarità. Questa prepotenza dell'osceno e del primitivo che si incolla alla figura della madre, e che crea ancora, come nel romanzo d'esordio, la crasi di lingua e maternità, cioè una sorta di luogo da cui una volta generati, bisogna fuggire. L'amica geniale, che si configura come il primo libro di una trilogia, è ancora una prova della straordinarietà e unicità della scrittrice Elena Ferrante.