«Nell'era di Putin i russi hanno barattato i diritti civili con la sicurezza e i supermercati»
Autore: Guido Caldiron
Testata: Liberazione
Data: 8 maggio 2011
«Persone che nel 1999 sono state terrorizzate dalle esplosioni nelle case di Mosca e hanno scelto l'ordine a scapito della libertà, implorando loro stesse il dominio di una rigida autorità e considerando Putin il Pinochet russo necessario al paese; che hanno permesso la seconda guerra cecena perché non c'era abbastanza coraggio per immaginarsi la pace; che hanno lasciato che le autorità ci togliessero una televisione libera perché il proprietario era uno che la pensava diversamente; che dopo le vicende del teatro Dubrovka preso dai terroristi si sono trovate d'accordo sul fatto che non si dovesse permettere ai nemici di dire la loro né mostrare le operazioni antiterroristiche in diretta; che si sono abituate a vedere nemici ovunque». Valerij Panjushkin è uno dei più noti giornalisti russi, nato nel 1969 a Leningrado ha fatto l'inviato per Kommersant e Vedomosti, è corrispondente della rivista Snob e tiene regolarmente una rubrica su Gazeta.ru. Al Salone di Torino presenterà venerdi 13 maggio alle 14.30 il libro che ha appena pubblicato per le Edizioni E/O, 12 che hanno detto no. La lotta per la libertà nella Russia di Putin (euro 19, pp.
272), dove illustra, attraverso i ritratti di dodici protagonisti dell'opposizione russa, il clima che si vive attualmente nel paese. All'ombra dell'autoritarismo e della corruzione dilaganti emergono così i tratti salienti di una società attraversata da una profonda crisi e dove le manovre poco chiare attraverso cui Putin e Medvedev sono arrivati al potere non sembrano turbare che una piccola parte della popolazione, visto che la maggior parte dei cittadini si disinteressa della politica perché troppo presa dalla sopravvivenza quotidiana. Il suo libro muove da una data precisa della recente storia russa: l'aprile del 2007 quando l'opposizione a Putin scese in piazza a Mosca e a San Pietroburgo e fu duramente repressa dagli apparati di sicurezza del regime. Perché questa scelta? Come giornalista mi ero già occupato delle manifestazioni dell'opposizione ma non avevo riflettuto più di tanto su cosa rappresentassero davvero. Poi, proprio in occasione dei fatti di quell'anno, mi sono reso conto che dovevo cercare di capire quale fosse il volto di questo movimento che lotta per la libertà e la democrazia in Russia. Tutto è nato da un domanda che mi sono posto e a cui ho scoperto che non era in grado di dare una risposta chiara. I protagonisti del Sessantotto alla Sorbona di Parigi erano stati gli studenti, lo sapevo bene. Ma nella primavera del 2007 chi componeva la piccola folla che sfidava la repressione per manifestare nelle strade delle maggiori città del mio paese? Tra loro c'erano politici di professione, operai, giornalisti, studenti e intellettuali, membri delle forze armate, dei giovani poco più che ragazzini, delle donne di mezza età. Le ragioni della loro indignazione erano spesso molto personali, legate alle loro esperienze di vita oltre che alle loro idee. Eppure non conoscevo le loro storie, quasi nessuno in Russia le conosce. Credo che sia a partire da questa constatazione che ho capito che volevo scrivere questo libro. Lei racconta come si abbia l'impressione che molti russi abbiano accettato di scambiare la sicurezza con le democrazia, accettando in nome della paura del terrorismo e dell'instabilità politica la progressiva deriva autoritaria incarnata da Putin. E' andata proprio così? In Russia questo elemento ha giocato un ruolo molto importante nello sviluppo di un sistema autoritario e repressivo. All'inizio il consenso a Putin ha messo insieme le paure alimentate dalla situazione nel Caucaso con l'idea che solo una stabilità politica molto rigida avrebbe potuto garantire la realizzazione di quel sogno di benessere e consumismo che era stato promesso ai cittadini russi. Tanto per capirci, in molti non si sono posti troppi problemi nel barattare alcune fondamentali libertà democratiche con la possibilità che vi fossero più prodotti nei supermercati. E' come se i russi avessero detto ai loro governanti: «Fate un po' quello che volete, ma lasciateci la possibilità di comprare i blue-jeans e le macchine che vogliamo». C'è però anche un altro elemento che ha giocato in modo decisivo, vale a dire il fatto che molti russi hanno ancora un rapporto con lo Stato che gli deriva dalla tradizione sovietica, si sentono in qualche modo dei "dipendenti" dello Stato e non sono abituati a fare troppe storie, almeno fino a che le cose non cominciano ad andare veramente male sul piano economico. Allo stesso modo la gente sembra non capire che se una parata militare sulla Piazza Rossa, di quelle che raccolgono abitualmente una folla festante, costa circa 12 milioni di dollari, quei soldi non li spendono Putin o Medvedev, bensì tutti i russi attraverso le tasse che pagano. Eppure gli omicidi di giornalisti, gli arresti degli oppositori politici, i pogrom razzisti contro gli immigrati provenienti dal Caucaso si moltiplicano in tutte le città della Federazione russa: possibile che la situazione dei diritti civili non desti allarme nella popolazione? La verità è che credo che moltissimi russi non sappiano che farsene dei diritti civili. Non ne hanno bisogno perché in realtà non sanno bene che cosa sono e a cosa servano. Inoltre si deve considerare che esattamente come solo il 5% della popolazione russa ha compiuto un viaggio all'estero nella sua vita, una percentuale simile, o comunque un'esigua minoranza, si interroga sul funzionamento delle istituzioni o dello Stato. E quando gli intellettuali denunciano la deriva autoritaria del potere, in tanti si chiedono che cosa stiano dicendo: la popolazione post-sovietica è stata allevata con gli spettacoli della televisione, con programmi che spiegano che la "terra è piatta" per dare ragione a un'affermazione retorica di Putin, è come se avesse perso la voglia di ragionare. Alla deriva repressiva si è però accompagnata anche una progressiva concentrazione del potere economico in poche mani: la Russia di questi anni è anche quella dei "nuovi ricchi" che esibiscono il proprio stile di vita "dorato" e degli oligarchi che puntano a controllare le risorse energetiche del paese. Da quanto punto di vista qual è la situazione oggi? Diciamo che se nei primi anni Novanta, nell'era politica dominata dalla figura di Bosri Eltsin, a comprare i voti in Parlamento attraverso il loro potere nel business e a comprarsi le ville a Forte dei Marmi (la località della Versilia diventata "la capitale" degli investimenti russi nel nostro paese, nda) erano gli oligarchi, i boss dell'economia e del petrolio, oggi le stesse case le comprano i dirigenti dello Stato. Funzionari che ufficialmente guadagnano poche migliaia di euro al mese ma che hanno sempre una moglie, un fratello, un figlio o un qualche tipo di parente che guarda caso dirige una società che lavora proprio per conto del loro ministero. L'evoluzione cui si è assistito è stata ben illustrata dalla vicenda dell'ex sindaco di Mosca Luzhkov che appaltava all'impresa edile di proprietà della moglie la costruzione di edifici pubblici: a un certo punto questa signora era diventata la donna più ricca del paese. E oggi la stessa cosa si può dire per quasi tutti i ministri di Putin: a nessuno di loro manca un parente che faccia affari con lo Stato che loro stessi rappresentano.