Un gruppo di frammenti di narrazione di chi ha vissuto la baldanza e la miseria dell'Italietta fascista, la tragedia della guerra e della deportazione, e gli anni della faticosa ripresa del dopoguerra. Questi sono I racconti di Vasinto di Paolo Teobaldi (e/o, pagine 160, euro 18,00), che in diciotto frammenti compone con maestria una serie di affreschi di uomini e luoghi del pesarese di quegli anni, intrecciando memoria e dialetto, sguardi e rassegnazione, attese e dolore. I personaggi sono protagonisti, spesso inconsapevoli, di un'epica della povera gente, costretta a subire le prepotenze della storia: i contadini poveri, le loro mogli e i loro figli; qualche artigiano e - raramente in campagna, un po' più spesso in città - i ricchi, con le loro vicende spettegolate e mitizzate, quasi sempre su uno sfondo di ridicolo. (...)
Teobaldi scrive tra la declamazione e la tenerezza, ora drammatica ora ironicogrottesca, del ricordo; fa emergere in un ritmo che si apre e chiude a fisarmonica le cronache di umanità di un periodo storico inaudito, oggi molto lontano. Ci sono, nel suo sguardo e nella fusione linguistica di italiano e dialetto, richiami a Luigi Meneghello - ma con un narratore in terza persona. Il lessico pesarese è colorito, spesso brioso: si va dalla presunta grandezza del fatuttone a mangiare un morso (a pranzo), dai cittadini soprannominati quelli del selciato alla dolcezza dell'invito rivolto alla bambina sperduta: Nicht piangere, cocca. In tutto il libro affiora anche la problematica della comunicazione tra il narratore e chi ascolta, della veridicità del ricordo e dei suoi dettagli: in un universo oralmente ricreato in una narrazione poetica, altra e quanto mai necessaria in un'epoca troppo veloce come la nostra.