(...) E poi, quasi a chiudere un cerchio, ecco Emanuela Anechoum. Il suo Tangerinn è una risposta incandescente agli slogan furbetti su corpi non conformi, integrazione culturale e povertà sistemica. Mina ha trent’anni, nelle sue radici c’è il Marocco ma è cresciuta in una piccola provincia sul mare del Sud Italia, per poi trasferirsi a Londra. Non crede in Allah e in nessun dio, non crede nel velo che sua sorella indossa ogni giorno. Mina è islamofobica: ecco perché ha smesso di credere anche nella sua famiglia. A sua sorella Aisha dirà: “Sono migliore di te perché sono libera”. E nel coraggio di ammetterlo, sarà costretta a guardarsi allo specchio e chiedersi se la ricerca di una libertà assoluta non sia in sé una prigione invisibile. Dunque cosa succede quando muore un padre ma tu ancora non sai chi sei?
Attraversando le viscere del lutto – per un uomo che è stato, insieme, faro e assenza – è come se Anechoum trattenesse in sé sia “il profilo dell’altra” che “la parte sbagliata”. Perché il profilo delle altre (le più magre, le più ricche, le più aggraziate) è ciò che ha sempre invidiato: “Continuamente invidio i sicuri di sé, i belli, i ricchi, i felici. Sono piena di veleno per i privilegi degli altri, e invidio anche i loro meriti”. Lo confessa, anche lei, senza il pudore del buonsenso. Perché la verità è che Mina non vuole essere né come il padre né come chi le somiglia: “Volevo essere normale”. E se è vero che chi possiede meno osserva tutto, per impotenza e con ossessione, Anechoum si concede di vivisezionare ogni aspetto del privilegio altrui. Spia, imita, emula, desidera, giudica. Invidia, sempre. E orchestra un discorso doloroso sull’educazione familiare, i conflitti culturali, la differenza tra essere qualcuno e appartenere a qualcosa, il senso di colpa dei figli expats verso i padri migranti. Così, nel tentativo di emanciparsi, quasi sfiora il tragitto di Davide Coppo e del suo Ettore, fino a trovarsi anche lei dalla parte sbagliata. Quella del pregiudizio, della discriminazione, della paura del diverso da sé. Anche quando “il diverso” è la tua famiglia, quando sei tu.
Mentre piscia nel balsamo per capelli della sua coinquilina londinese (digital activist più magra, più ricca e più aggraziata di lei) e mentre scopre che rappresentare “la quota diversità” in UK è una falsa promessa di emancipazione, il presente di Mina si intreccia al passato di quell’uomo che negli anni Ottanta, mentre il Marocco era in guerra con l’Algeria, pativa la fame sognando di guidare fino a Tangeri, prendere una nave per l’Europa e fermarsi di fronte alle vetrine di un negozio “con l’idea di chi si può permettere di entrare”. “Avevi ambizioni feroci che ti vergognavi di rivelare”, dirà la figlia al padre defunto, riconoscendosi in lui. Perché essere costretti a fuggire non è come decidere di andarsene. Ma la rabbia d’essere nati lì e non qui, è la stessa.
“Mi odiavano, e quell’odio mi definiva”, scrive Davide Coppo mentre il suo Ettore torna a casa da una rissa, e realizza che la violenza è un’affermazione di potenza. Avrebbe voluto fermarsi a un falò, a cantare i Cranberries insieme a quella ragazza speciale, ma una mascella che scricchiola sotto le nocche significa che puoi ferire ed essere ferito: significa esistere. Emanuela Anechoum scrive che “ognuno esiste solo quando è visto”, e nel frattempo si nasconde senza neanche dover indossare l’hijab. La sua Mina domanda al ricordo del padre: “Ne eri sicuro, papà? Diverso è meglio, di più è meglio?”; e sceglie l’invisibilità per non subirla passivamente: “Avevo vent’anni e volevo dimenticarmi di me il prima possibile”. Come la ragazza della Gen Z che, sotto quel post, non trovava più motivi per entusiasmarsi. Perché secondo Anechoum essere e insieme appartenere è il più grande privilegio, mentre Irene Graziosi, quasi in risposta al romanzo dell’altra e a quel padre fuggito dal Marocco in cerca di ricchezza, capisce che il vero lusso è “occuparsi della cosa più inutile tra tutte: la bellezza”. Ma soprattutto che nessuna identità può fiorire da un algoritmo perché “i social, puliti dalle illusioni, sono la tomba di ogni rivoluzione”. E così tutto torna, anche il canto di tre giovani Misfits che scendono nell’abisso e vengono a raccontarci cos’hanno visto.