Sembra di sentirlo, il Padre-narratore, mentre racconta al suo pubblico di paese - vecchi, bambini, uomini e donne che non finirebbero mai di ascoltare le storie risentite cento volte, provate come canovacci di teatro da far rivivere ogni sera. La guerra, il campo, il medico tedesco che vaccina per vendetta piantando la siringa nello sterno (quanto diverso dall'infermiera Italia e dal suo "massaggino"), la bambina Ghisela salvata dalle bombe (dove sarà adesso? viva? sposata?), l'orgoglio di lavorare ancora come falegnami, il banchetto catartico dei prigionieri che sbranano i cani lupo degli aguzzini. Sono frammenti vivi questi "Washington tales" di Paolo Teobaldi (ma Washington, tra Marche e Romagna, diventa Vasìnto). Belli e tragicomici. Vivi anche nelle lingua, "scocciolata" come le baracche. Come l'incontro con gli americani a cui tocca spiegare che i tedeschi non ci sono più «scappati come le lasce»: «e allora a volte nel racconto uno degli americani chiedeva cos'era una lascia e così dopo gli toccava spiegare che la lascia era un levriero, cioè un cane nato apposta per la caccia alla lepre, che infatti correva velocissimo come la lepre, anzi di più: a zig-zag, finché uno dei due ha un'illuminazione e dice ridendo: Ochèi! Greyhound! Greyhound!, come la corriera».