Nata a Rafah, la palestineseAsmaa Alghoul ha scritto un memoir con Sélim Nassib . «Vivo in Francia, ma la guerra da fuori è peggio che da dentro»
«Parole come "ferocia" o "massacro" suonano al pari di cliché inadeguati a definire [...] un livello di realtà che semplicemente non è possibile esprimere. Come descrivere quanto ci sia familiare la sensazione della morte che ci ossessiona, quanto sia intimo ciò che condividiamo con essa?». Sono affermazioni di un'attualità lancinante quelle contenute nel libro La ribelle di Gaza di Asmaa Alghoul e Sélim Nassib. Passato e presente, vicende personali e collettive, la storia di un popolo che si intreccia con gli eventi più intimi e familiari: guerra, sofferenza, ingiustizie, ma anche la capacità di resistere e di ricominciare sempre di nuovo, come in un eterno, tragico, ritorno dell'identico.
Asmaa Alghoul è nata nel 1982 nella Striscia di Gaza ed è cresciuta nel campo profughi di Rafah, al centro delle cronache di questi giorni. Giornalista, blogger, attivista, è stata ed è una voce di denuncia delle sopraffazioni e delle sofferenze del suo popolo. Nel 2012 è stata insignita del Courage Journalism Award dall'International Women's Media Foundation. E in effetti di coraggio ne ha sempre avuto molto. Anche perché non ha mai fatto sconti a nessuno: il primo obiettivo della sua penna affilata è stato l'oscurantismo di Hamas, il tentativo di imporre un'islamizzazione forzata, l'oppressione e l'ossessione nei confronti delle donne. Ma anche la «spietatezza» di Israele, e la «stupidità» di chi non vuole vedere o non fa nulla.
Il suo memoir scritto con il giornalista e scrittore Sélim Nassibi, libanese trapiantato in Francia, si ferma sulla soglia della crisi attuale, eppure contiene tutti gli elementi che permettono di leggerla e decifrarla, e in qualche modo di viverla attraverso la voce di chi ha già patito sulla sua pelle tre guerre, rischiato la vita, subìto minacce e pestaggi, e che è stata gettata in prigione nel tentativo di farne una «brava musulmana», lei che, credente, si è sempre rifiutata di coprirsi il capo con il velo. Ma è anche il racconto quotidiano di chi ha condiviso il coraggio di resistere, di denunciare, di ribellarsi e, in fondo, di vivere, con tutta la ricchezza di sfumature, di gioie e di dolori che l'esistenza elargisce anche in un luogo particolarissimo come la Striscia di Gaza o in un campo profughi come quello di Rafah che, «per me - dice - è come una patria».
Oggi Asmaa Alghoul vive nel Sud della Francia, dove si è trasferita con i due figli, «perché mi rifiuto di farli vivere nel pericolo costante», scrive. E quella ragazza libera, curiosa, irriverente e determinata - insopportabile già a cinque anni, scherza nel libro - ha lasciato il posto a una donna sofferta, lacerata: «Vivere tutto quello che sta accadendo da qui è ancora più difficile e straziante. A volte mi sento vuota, non mi riconosco più. Non so più chi sono», dice a «la Lettura». Ha appena ricevuto la notizia dell'uccisione del figlio di nove mesi di suo cugino. Ma spesso di notizie non ne riceve alcuna: «Per giorni non riusciamo a sapere nulla. E anche questo ci fa impazzire. Passiamo le giornate davanti alla televisione o sui social. Cerchiamo i nomi dei nostri cari e dei nostri conoscenti tra quelli dei morti. Ho vissuto la guerra da dentro, ma mi è ancora più difficile viverla da fuori. È come se sentissi le voci di quei bambini, dei miei familiari, di mio padre, mia sorella, dei suoi figli... La morte è con noi ogni giorno. La distanza è solo geografica, quella dell'anima non esiste».
Eppure Alghoul non ha rinunciato a parlare. Continua a farlo con suoi articoli e sui social: «Non dimenticheremo mai!», ripete spesso sul suo profilo Facebook. E continua a ricevere messaggi di odio e minacce: «Ma non me ne importa!». Proprio come quando era a Gaza e si rifugiava nella biblioteca dello zio per divorare più libri possibile e poi usciva in strada per manifestare contro Hamas - e contro un altro zio che era diventato un dirigente militare del gruppo islamista - per poi scrivere, documentare, urlare al mondo le barbarie che venivano commesse da dentro e da fuori. «Un buon libro. Di questo ha bisogno Gaza, di questo e nient'altro!», ripete spesso nel suo testo. E di musica, di cinema, occorre aprire la mente di tante persone: «Ci corre un niente tra il destino di essere professore, scrittore o poeta e quello di fare il combattente o ammazzare la sorella credendo di difendere l'onore della famiglia». (...)