"Tangerinn", l’esordio di Emanuela Anechoum edito da E/O, racconta del complicato rapporto tra le proprie origini e i propri desideri, alla ricerca di ciò che si è realmente oltre le maschere che ci obblighiamo a indossare.
(...) Quando ci accorgeremo che da certi discorsi intorno alla diversità, alla marginalizzazione e alla discriminazione strutturale sono regolarmente escluse quelle stesse minoranze che dovrebbero esserne protagoniste, allora forse realizzeremo anche che a orientarli sono ancora ristrette èlite di persone che dispongono di capitali – spesso culturali, più spesso ancora economici – che a tutti gli altri sono preclusi.
In questo senso Tangerinn somiglia a un testo fondativo, capace di mettere in pagina le segregazioni sottili patite da persone rese token da sventolare in società o persino vendere al mercato (pardon: digital market), e di squarciare il velo di Maya sulle storie che ci raccontiamo per sentirci a posto con la nostra coscienza di progressisti col cuore dalla parte giusta. Per appartenere ai buoni ci basta una caption, così che nessuno ha più bisogno di esserlo davvero: passiamo sopra la distanza sbrigativa e crudele con cui trattiamo il prossimo, conta solo l’esattezza estetica del nostro apparire.
Tangerinn no, va più a fondo. Anche il modello dell’accoglienza diffusa del Sud Italia, quello che ha fatto commuovere il grande pubblico di fronte a tanti telegiornali e post virali su Facebook, si rivela un falso prospettico: “Una volta fuori pericolo, gli immigrati venivano riversati nelle strade come acqua sporca, ignorati, marginalizzati, lasciati a morire di altre morti. Era questo il modo cristiano di salvare il prossimo”, spiega a un certo punto Mina.
È un libro, quello di Emanuela Anechoum su cui fermarsi a riflettere; un romanzo familiare che parla di identità divise e ai margini senza pagare tributi preteschi a nessun breviario pigro da cena engagé ad Hackney; che illumina un presente difficile e complesso, senza edulcorarne gli aspetti di razzismo e discriminazione strutturale; che si muove tra il Mediterraneo e il Marocco e la Calabria, ma anche sotto la pelle di chiunque a un certo punto se n’è andato e poi non ha chiamato e non è tornato, nell’ingenua convinzione che non gli sarebbe mai mancato il tempo per farlo.
Alla fine, in ogni caso, indietro non si può tornare; non senza accettare di essere cambiati, perlomeno. Come dice Mahdi, il mite e nostalgico lavoratore del bar Tangerinn che fu di Omar, ripensando alla sua terra natia: “E magari, sai, vivrò bene qui. Sarò al sicuro, avrò delle possibilità che a casa non avrei avuto; ma diventerò una persona completamente diversa. […] Sarò altro, e avrò altre cose: ma non riavrò mai indietro quello che ero”.