«Tangerinn» è il nome di un bar sulla spiaggia intorno al qualeEmanuela Anechoum , nel suo romanzo d'esordio, raccoglie generazioni diverse, aspirazioni e sogni, svolte brusche, il Marocco, un «paesino mafioso di provincia», Londra
Da un lato, col suo romanzo d'esordio, Tangerinn , Emanuela Anechoum s'appoggia all'abusato plot narrativo del «ritorno a casa (con padre defunto)». Dall'altro, il tutto viene offerto con una propria specificità nei vari personaggi: specificità che detta modi e toni del racconto, ora rabbiosamente malinconici, ora epico-drammatici, ora ironici, ora delicatamente familiari. A dettare il tutto l'io narrante di Mina, 26 anni, fuggita sei anni prima da «una casa sul mare, in un paesino mafioso di provincia», a ridosso d'una riconoscibile «piccola città che pure spezzava il mare in due». Una fuga dettata da «questo ticchettio nella testa che mi diceva: devi essere nuova. La chiamavo libertà». E la cerca a Londra, ospite della digital activist Liz, che appare subito a Mina «gentile, generosa, bella, ricca e potente», sino a divenirne succube.
Un io narrante però intrinsecamente dialogante e interrogante, narrandosi a un «tu»: Omar, il padre marocchino per i cui funerali è stata richiamata a quella «casa» mai sentita come sua.
Di qui il romanzo procede su un doppio binario: il presente, soprattutto familiare; e il passato, che Mina rivisita attraverso un dialogo con quelle «ceneri mute» che è tornata per spargere in mare, insieme alle donne della sua famiglia, tutte «orfane di padre, sopravvissute al malamore, alla delusione, al lutto, alla solitudine»; ceneri che le parlano dentro, attraverso i ricordi sia suoi che d'un lontano amico di lui, Rashid, che anni prima ha conosciuto e aiutato il giovane Omar proteso, come proprio Mina oggi, alla ricerca d'una propria identità, finalmente sbloccando il freno che porta a «sciupare le occasioni» e che Omar e poi Mina chiamano «codardia». Che in Omar era l'indecisione tra il desiderio di andarsene «convinto che in Marocco non saresti mai riuscito a essere davvero te stesso», e il senso di colpa di abbandonare il fratello minore Idris: vinta in seguito alla morte del fraterno amico Samir durante uno sciopero contro la fame.
Quanto al presente, è la «quotidianità che con tanta fatica mi ero costretta a dimenticare», nella quale Mina rientra ogni giorno di più quasi senza avvedersene, «come se non l'avessi mai lasciata» quella casa; e però con ricadute nelle proprie ossessioni, tanto da decidere anche di tornare Londra, sia pur con la conseguenza di un distacco definitivo dalla città. Un presente che porta nel romanzo singolarissime quanto vivissime figure di quella famiglia ormai orfana di Omar (a sua volta un «senza padre»), malvista dal paese per via del matrimonio di Berta con un marocchino: con la figlia Mina che, «più scura», come il padre, rispetto alla sorella Aisha e alla madre Berta, più «chiare», porta nel proprio fisico il segno della «mescolanza», vivendo come «un ticchettio paranoico nella mia testa» il giudizio degli altri. (...)
Il romanzo ha quale equilibrato basso continuo tematico la concertazione di «specchio» e «correre» (lemmi ad alta frequenza), che s'incrociano poi nelle parole di Rashid a Mina: «Sei uguale a Omar, mormorò, hai così tanta ansia di conoscerti, di aggiustarti, di farti nuova, di piacerti. Rincorri la vita e così facendo te la perdi». Tradotto in testamento da Omar per la figlia: «Non si corre mai via da qualcosa, si corre sempre verso qualcosa. Corri verso te stessa, e verso le cose che ti bastano, sapendo che se non ci fossero ce ne sarebbero altre».