(...) Certo, l'autofiction come genere allo stesso tempo socialmente nuovo e antichissimo non è stata ancora del tutto pensata. E un contributo a (ri)pensarla ci viene, ora, dalla lettura di Le nostre perdute foreste, il più recente romanzo di Chiara Mezzalama (E/O). Già nel Giardino persiano, storia di un'infanzia al seguito del padre ambasciatore nell'Iran della rivoluzione khomeinista, Mezzalama aveva messo la propria biografia, velata dalla distanza, al centro della parola detta. Ma Le nostre perdute foreste - narrazione in presa diretta di un amour fou incendiario e segreto che nasce e muore, letteralmente, nel tempo della pandemia, quando un infarto abbatte il corpo dell'amante Olivier sulla porta di casa, prima che con l'ama ta Chiara possano finalmente rivedersi - applica alla forma romanzo il disegno del panopticon . Il modello di carcere inventato nel 1791 dal filosofo Jeremy Bentham consente a un solo sorvegliante, un unico grande occhio in una torre centrale, di controllare contemporaneamente tutti gli abitanti delle sue molte celle, disposte a cerchio o semicerchio. Non tardò ad essere mes so in pratica, ad esempio nel penitenziario dell'isola di Santo Stefano, costruito dai Borboni nel 1795. Di questo perturbante strumento di potere e controllo si potrebbe discettare a lungo, ma qui, nel romanzo di Chiara Mezzalama, struttura e funzione del panopticon come metafora si trovano invertite. Nelle Nostre perdute foreste, infatti, è ormai l'io che scrive ad occupare la torre centrale, non più come soggetto, ma come oggetto dello sguardo altrui, a cui si offre completamente. Con la speranza implacabile che quella percezione totale, che da ogni parte ci converge addosso, possa restituire, replicare, riaccendere lo sguardo perduto dell'essere amato, continuare così ad alimentare il fuoco della trasformazione che innescava in noi.