Parla l’autore di «Bell’abisso», pubblicato dalle edizioni e/o, vincitore del Prix de la littérature arabe nel 2022. In un romanzo amaro ma non privo di ironia, l’eredità tradita della Rivoluzione dei Gelsomini. «All’origine del libro c’è un fatto concreto - spiega l'autore -: l’aggressione di alcune deputate da parte dei membri di un partito islamista all’interno del parlamento nel 2020». «L’albero simbolo del mio Paese è l’olivo: ci vogliono 15 anni prima di veder apparire i suoi frutti. Perciò non sono pessimista».
Il giovane protagonista ha scelto di ribellarsi ad un sistema che opprime lui come tutti i suoi coetanei, che gli nega il futuro ma anche ogni piccola gioia quotidiana, perfino la compagnia di un cane, unico affetto in un orizzonte dominato dalla solitudine, se si eccettua la compagnia dei libri. È lui stesso a raccontarci la propria storia, ripercorrendo, da imputato in un processo che lo vede alla sbarra per il modo violento in cui ha reagito all’oppressione, una traiettoria esistenziale segnata dalla sopraffazione, dalle umiliazioni patite in famiglia, a scuola, per strada. Il suo memoir doloroso suona però come un atto d’accusa, che, ad ogni passo, finisce per interrogare e mettere alle strette «il sistema» e la società che intendono processarlo. Vincitore del prestigioso Prix de la littérature arabe nel 2022, Bell’abisso (traduzione di Valentina Abaterusso, e/o, pp. 120, euro 14), di Yamen Manai, riflette con amara consapevolezza, ma non rinunciando talvolta ad una sinistra ironia, sulla crisi tunisina dell’ultimo decennio, per molti versi emblema dei sogni infranti delle primavere arabe che avevano annunciato libertà, democrazia e benessere. Classe 1980, nato a Tunisi ma da tempo residente a Parigi, considerato come una delle voci più innovative della narrativa locale, Manai ha già pubblicato una serie di romanzi che raccontano le trasformazioni del suo Paese, dove il realismo si intreccia con la poesia e dove il bilancio necessariamente amaro della situazione non chiude mai del tutto le porte alla speranza.
«Bell’abisso» sembra racchiudere un ampio portato simbolico, eppure si percepisce una certa urgenza all’origine del libro: è stato spinto a scriverlo da un avvenimento concreto?
In effetti, all’origine di questo testo c’è un fatto concreto. Si tratta di una scena di violenza che ha avuto luogo all’interno del parlamento tunisino nel novembre del 2020. Dei membri di un partito islamista hanno aggredito prima verbalmente e quindi fisicamente delle colleghe che non erano d’accordo con loro. E molti tunisini sono rimasti scioccati da queste scene scandalose. Il sogno di una Tunisia pluralista, dove ognuno potesse avere il proprio posto con dignità, che aveva accompagnato la rivoluzione popolare del 2011, è sembrato essere stato dimenticato da questi deputati, per quanto democraticamente eletti. Di fronte a quanto accaduto, mi sono interrogato sull’idea di rappresentatività: il comportamento di questi parlamentari ci rappresenta o va considerato «solo» come un episodio infelice? Il romanzo cerca di rispondere a tale domanda. (...)