Con il suo nuovo romanzo, I qui presenti, Fabio Bartolomei ci spiazza ancora una volta, introducendo, fin dalle prime pagine, una cifra di visionarietà inaspettata. Narratore è Oscar, un ventiduenne spiantato, piccolo spacciatore che vive all’addiaccio e consuma più pasticche di quante riesca a venderne. Non potendo pagare l’ultima rata, non è riuscito a prendere alla scuola serale un diploma che ormai pareva vicino («per quelli come me i sogni sono bestie selvatiche, gira e rigira una bella sgraffiata la rifilano sempre», p. 10) e anche la fidanzata Lisa, che appartiene a una buona famiglia, inizia a diventare sfuggente, ad accampare scuse pur di non vederlo.
Tutti questi elementi lo rendono un personaggio palesemente inaffidabile, anche a se stesso, tanto che, quando una notte si sveglia nelle tenebre più fitte, e il mattino successivo scopre che il mondo intorno a lui si è dissolto, inghiottito da un bianco uniforme, opaco e privo di qualsiasi profondità, il primo pensiero che gli salta in mente (a lui, così come al lettore) è quello di un’alterazione della percezione legata alla dipendenza. Questo è, del resto, ciò che pensa anche Lisa, unica a scampare con lui a questa cancellazione radicale, almeno fino a quando i due non si rendono conto che proprio Oscar, con il suo movimento, riesce a dissolvere il bianco facendo ricomparire scampoli di mondo, con tutto ciò che contengono, persone e animali compresi (e nel novero delle ricomparse, si potranno contare un gatto, un cavallo, e persino due struzzi).
Dopo molti esperimenti, guidati dalla razionale e pragmatica Lisa, e dopo il trascorrere di un congruo lasso di tempo, i due innamorati non possono che giungere a una stessa conclusione:
Se a circa dieci ore di distanza gli unici pezzi di bianco scancellati corrispondono al cammino fatto dal qui presente Oscar Gilera e non a quello fatto da ragazze di buona famiglia né da gatti fetenti, tocca farsi una ragione che forse solo pochissime, molto sottovalutate persone hanno il potere di fare il miracolo, la magia o quel che è. (p. 24)
A questo si aggiunge la progressiva presa di coscienza che, in una sorta di realtà parallela a quella in cui loro sono immersi, la vita sta proseguendo regolarmente, e un’altra versione di loro, o loro stessi, continuano ad agire come sempre, mandando messaggini, sostenendo esami universitari, frequentando feste (o, nel caso di Oscar, evitando accuratamente tutte queste attività, per paura di ricadere nelle mani di quel brutto ceffo a cui deve ancora del denaro che non ha…).
Bartolomei sceglie, per dare voce al suo personaggio, di far uso di un linguaggio mimetico, a tratti colloquiale, a tratti invece stranamente arcaico, che risente di quello della nonna defunta, unico modello positivo per Oscar, per il resto cresciuto in una famiglia violenta e incapace d’amore genitoriale. È lui che si pone domande e propone interpretazioni per fatti che appaiono inspiegabili, generando quei momenti di straniamento da cui scaturisce la comicità del testo.
Ai segmenti di focalizzazione interna, si alternano dei capitoli di cui inizialmente si fatica a comprendere la natura. L’incipit fa sempre riferimento alla creazione del mondo o alla natura dell’uomo, protagonisti sono sempre due personaggi, per lo più abietti, descritti in base alle loro caratteristiche preminenti. E se il loro legame con i personaggi principali si disvela poco alla volta, ci si mette ancor di più a capire quale sia lo scopo di tale intermezzi nella narrazione. Certo è, e questo si può anticipare, che il quadro dell’umano che ne è emerge non è lusinghiero, e non rende molto onore agli sforzi del suo lunghissimo processo evolutivo. I soggetti rappresentati naufragano infatti nella banalità o nell’ipocrisia, nella corruzione o nel vuoto di senso. Vivono indossando maschere imposte dall’esterno, inseguendo soltanto interessi materiali, incapaci di comprendere chi li circonda o disinteressati a farlo. È proprio guardando a personaggi come questi che lo sprofondare del mondo nel bianco pare quasi una buona cosa, un esito auspicabile.
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