«Sarebbe da tempo necessario che i paesi che hanno avuto (e talora hanno ancora) colonie nel mondo concordassero con tutti gli altri paesi l’istituzione di una simile commissione presso l’Onu. Ciò forse aiuterebbe ad aprire molti occhi e cuori in Europa e in Occidente, consentirebbe di rimuovere almeno alcuni dei misfatti e crimini di discriminazione razziale ancora in corso qua e là per il pianeta, costituirebbe un patrimonio conoscitivo potenzialmente comune agli oltre otto miliardi di attuali conviventi umani, toglierebbe senso o vigore alla cosiddetta cancel culture nei gruppi sociali che hanno subito schiavitù e oppressioni nei paesi colonizzati. Terribile ed esemplare, in tal senso, la triste persistente vicenda delle Chagos nell’Oceano Indiano, di cui si sta ancora dibattendo nelle Corti di giustizia internazionale. La storia moderna è tutta coloniale: l’abitato arcipelago fu raggiunto dai portoghesi all’inizio del Cinquecento e poi, per la gran parte dei secoli successivi, fu controllato da Mauritius, che a sua volta era una colonia francese. Col trattato di Parigi del 1814, la Francia cedette Mauritius e le sue dipendenze (comprese le isole Chagos) al Regno Unito.
Si tratta di una sessantina di atolli corallini e piccole isole, almeno tre anticamente abitate dai sapiens. Siamo nel bacino oceanico Indiano, a est dell’Africa, a ovest del Pacifico, a sud delle Maldive, più o meno alla stessa lunga distanza sia da India e Sri Lanka (a nord) che da Madagascar e Mauritius (a sud-ovest). Esiste lì uno splendido minuscolo arcipelago di fertili terre insulari, ampie in tutto soltanto 56 km² (all’incirca come l’Asinara), da millenni antropizzato e da secoli considerato “annesso” alle Mauritius, pure da due secoli come una colonia inglese, pur trovandosi comunque a circa 2 mila chilometri (ovvero più che da Napoli sul mediterraneo Tirreno fino ad Amburgo sull’atlantico mar del Nord, non via terra poi, ma via mare) da quell’altro grande arcipelago di oltre 2000 km². Mauritius è oggi una pacifica repubblica africana indipendente, Chagos fa ancora parte del Regno Unito. Più che saggi o cronache, per capire leggete se vi capita lo splendido recente romanzo di Caroline Laurent, Le rive della collera, traduzione dal francese di Giuseppe Giovanni Allegri, Edizioni e/o Roma, 2023 (orig. 2020), pag. 347 euro 20.
Ai fatti l’autrice aggiunge qualche fiction letteraria, inventa alcuni personaggi e intrecci, iniziando a narrare dai primi mesi del 1967. Nell’arcipelago delle Chagos, con poche altre migliaia di sapiens perlopiù analfabeti, vive la carina 21enne Marie-Pierre Ladouceur, proprio a Diego Garcia, l’agglomerato più grande. Lei ama girare arruffata a piedi nudi, pelle nera dai riflessi dorati, ha una figlia Suzanne di quattro anni, risiede nel villaggio con la madre, la sorella Josette 25enne in procinto di sposarsi con Christian accanto ai loro figli, altri parenti e concittadini chagossiani (o îlois, come si auto-definiscono). A marzo fa scalo lì da Port-Louis (Mauritius) la Sir Jules (cinque giorni di traversata), ognuna di quelle rare volte con l’approdo un intero regno si riversa sulle loro spiagge, cibi oggetti e altri sogni.
In quell’occasione scende dalla nave anche un bel 18enne mauriziano, longilineo ed elegante, duro e raffinato, colto e inesperto, Gabriel Neymorin. Uno sguardo ricambiato (ma non sincronico) con Marie e via. Lui vorrebbe fuggire in Inghilterra ma intanto lo hanno mandato lì ad aiutare l’amministratore coloniale dell’isola, è imberbe (anche nelle relazioni affettivo-sessuali, legato alla sorella 14enne rimasta col padre). Ben presto nascerà un grande fertile complicato amore fra Gabriel e Marie, proprio quando, con le elezioni e poi il referendum, sta maturando l’indipendenza di Mauritius e sta per compiersi la crudele scelta inglese di affittare le Chagos agli americani per una base navale militare (decenni dopo vi decolleranno pure i famosi B52 per bombardare Afghanistan e Iraq).
Caroline Laurent (1 gennaio 1988) è un’accorta editrice francese, una stimolante professoressa associata di Letteratura moderna alla Sorbona e una bravissima scrittrice. La mamma e una relativa parte della famiglia sono di origini mauriziane, “culla e rifugio fondanti”, fra gli ultimi ad aver visitato liberamente le Chagos (dove trascorsero pure uno straordinario Natale). Così, la vicenda del suo secondo mirabile pluripremiato romanzo le fu raccontata proprio dalla madre, “una tragedia insulare”. Il fatto che gli inglesi abbiano martoriato l’arcipelago (deportando gli abitanti e dicendolo disabitato) “venduendo” in questo modo della povera gente, inoltre, è terribile storia, Laurent l’ha ricostruita con ricerche e testimonianze.
La narrazione alterna la voce in prima persona del figlio Joséphin di Marie (e Gabriel), brevi inserti sul suo volo verso Parigi e sul suo arrivo all’Aja per alcune udienze della Corte internazionale di giustizia del 2019 (l’autrice fu associata alla delegazione chagossiana), all’appassionato sguardo in terza persona sui due protagonisti del contrastato amore, Marie e Gabriel, dettagliatamente e liricamente descritti nei loro contesti geograficamente naturali (compreso un ciclone), storicamente culturali (emergono pure nel bel glossario finale), relazionalmente emotivi (simili a tutti noi), con capitoli datati fra il marzo 1967 e l’agosto 1975. Toccanti l’immagine di copertina e il titolo. La motivata collera li riguarda tutti: risanare, tornare.
Le rive della collera ci riguardano, il romanzo è da leggere e meditare, approfondendo l’insieme dell’opera triste e vitale dell’autrice: “il meticciato è sempre troppo oppure troppo poco. Non c’è equilibrio. Non c’è ricetta, né dosaggio. Qualunque cosa tu faccia, ti considerano per quello che non sei”. Segnalo ovviamente che: non sempre le prigioni sono armate di sbarre; nel 1967 le cinque celle della prigione di Diego Garcia erano vuote; sulle Chagos furono per secoli deportati prigionieri, schiavi dal Madagascar (una tratta qui descritta per esempio) e forse terroristi dopo l’11 settembre 2001. La musica del romanzo è il mare; si beve di tutto, importato, rum e birra, vino rosso e whisky».