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“Siamo noi gli aggressori”. “L’ora del lupo” di Valerij Panjuškin

Autore: Martina Mecco
Testata: Andergraund
Data: 28 marzo 2023
URL: https://www.andergraundrivista.com/2023/03/28/siamo-noi-gli-aggressori-lora-del-lupo-di-valerij-panjuskin/

“Accettare il ruolo di aggressori è una fatica immane. L’unica conseguenza possibile e ragionevole è il suicidio. L’unica cosa che mi ha impedito di suicidarmi nei primi mesi di guerra è stato il compito che mi ero prefisso nella disperazione: scrivere questo libro sui profughi.” (p. 12)

Con queste premesse Panjuškin introduce il lettore al suo ultimo libro, L’ora del lupo. Nella prima parte, l’autore contestualizza la stesura dei reportage che seguono all’interno del suo personalissimo spazio famigliare. In particolare, pone l’accento sul difficile rapporto con il padre, con cui si palesa l’impossibilità di confrontarsi e discutere in merito alla guerra senza scontrarsi con un’incomprensione inevitabile, un’incompatibilità di pensiero. Una situazione tutt’altro che singolare nella Russia odierna, come ben illustrato nel docufilm di Andrej Losak Razryv svjazi (“Legami spezzati”), disponibile con i sottotitoli italiani grazie al lavoro di collaboratori e collaboratrici di Memorial Italia. Tanto nel capitolo introduttivo di Panjuškin quanto in Losak è evidente la presenza di un’insanabile inconciliabilità che attanaglia la società russa nei confronti di quella che il governo ha definito e, tutt’ora, definisce specoperacija (“operazione speciale”). Si tratta di una vera e propria interruzione di legami, seguendo le parole dell’autore: “Mio padre, invece, gridava come un ossesso. Ed è ciò che fa chi è consapevole di una realtà tremenda e non può accettarla, perché accettarla è peggio che morire.” (p. 12) Anche in questa constatazione, cui segue una condanna nei confronti dell’idea quasi “consolatrice” che la società russa sia affetta da una qualche forma di “cecità” e dall’assenza di consapevolezza, è presente un aspetto fondamentale. Il ruolo che svolgono le parole. All’interno del terzo numero della rivista online “ROAR” (Resistance and Opposition Arts Review – Vestnik antivoennoj i oppozicionnoj kul’tury), edita da Linor Goralik, Ksenja Romanenko parla di “un silenzio che tutti capiscono”, di un “silenzio degli eufemismi”. Panjuškin è tra coloro che credono nella necessità di alzare la propria voce contro questo silenzio, che percepiscono come mandatorio il dovere di sollevarsi e di opporsi a un sistema politico che vuole mettere a tacere anche il minimo sussurro. In Russia, come testimoniato in Proteggi le mie parole (altra opera edita recentemente da E/O Edizioni di cui si parlava qui), la voce è diventata uno strumento fondamentale e, a giudicare dalle misure attuate, uno strumento che il Cremlino ha imparato a temere più di ogni altro. (...)