Parla l’autore di «L’ora del lupo» (e/o) che racconta le ferite dell’Ucraina e le divisioni della Russia. Lo scrittore e reporter russo che vive a Riga dall’inizio della guerra, sarà oggi alle 16 a Libri Come a Roma. «Già all’inizio dell’invasione stavo malissimo, ho capito che dovevo fare qualcosa. Raccontare le storie di quanti erano costretti a fuggire è stato il mio modo di oppormi al regime»
«Capivo molto bene che le cose stavano andando sempre peggio, ma, fino all’ultimo, fino all’invasione dell’Ucraina pensavo che qualcosa si potesse ancora cambiare, potessimo ancora conquistare qualche libertà, malgrado la repressione, tanta gente in prigione, il clima che si faceva sempre più duro. Poi, il 24 febbraio dello scorso anno ho percepito chiaramente che l’ultima via di uscita da questa situazione si era ormai chiusa. A quel punto ho capito che io e la mia famiglia ce ne dovevamo andare. Volevo che i miei tre bambini crescessero in un mondo aperto. Sono nato nel 1969 e ricordo bene com’era chiusa la realtà nella quale sono diventato grande io».
Alla vigilia del suo arrivo nel nostro paese per partecipare al festival Libri Come all’Auditorium di Roma – l’incontro con i lettori sarà oggi alle 16 in Sala Ospiti accanto a Giorgio Zanchni -, Valerij Panjuškin risponde da Riga alle domande del manifesto. Dal quel tragico 24 febbraio ha capito che avrebbe voluto cercare di fermare la guerra di Putin all’Ucraina, o perlomeno raccontare con gli strumenti del suo lavoro di cronista la tragedia di cui è vittima la popolazione civile del paese invaso. Anche se la conseguenza sarebbe stata dover lasciare il proprio di paese, la Russia.
Giornalista, scrittore, autore radiofonico cui si devono alcune delle inchieste più significative che sono arrivate da Mosca negli ultimi anni – in Italia e/o ha già pubblicato L’Olimpo di Putin e 12 che hanno detto no -, Panjuškin dà voce in L’ora del lupo (e/o, traduzione di Claudia Zonghetti, pp. 230, euro 18) ai rifugiati ucraini e alle loro storie di dolore, di sofferenza, di resistenza, mettendo al tempo stesso in luce come in molti, anche in Russia, abbiano cercato di dare loro una mano.
C’è Alla che di lavoro faceva la scienziata a Charkiv e fino all’ultimo non ha creduto che i russi arrivassero davvero, c’è Vladimir che a Odessa vende tapparelle e il 24 febbraio incurante del pericolo esce per andare a un appuntamento di lavoro. E c’è Viktoria che il giorno dell’invasione è in ospedale a Kiev accanto alla figlia quindicenne che deve sottoporsi a un delicato intervento chirurgico. Figure che incontriamo, conosciamo nella loro normalità e poi seguiamo nel tentativo disperato di sopravvivere e portare in salvo i propri cari dopo l’arrivo dei soldati russi.
Questo, mentre a Mosca una fitta cappa di propaganda si stendeva su ogni cosa, rendendo impossibile perfino in famiglia parlare liberamente, valutare quanto stava accadendo davvero, al punto che «la lingua russa è diventata la lingua della menzogna: in Russia è vietato dire la verità e neanche la guerra può essere chiamata con il suo nome».
Lo scrittore Valerij Panjuškin
Il libro nasce da un’urgenza, quasi da una necessità: quando ha deciso di raccogliere le storie di questi profughi?
Fin dall’inizio dell’invasione stavo malissimo, non potevo credere a quanto accadeva. In Ucraina ho molti amici e sia la mia prima moglie che quella attuale sono ucraine, perciò mi sembrava impossibile. Allora ho cominciato a telefonare alle redazioni dei giornali per cui ho lavorato in passato per capire se potevo farmi mandare come inviato in Ucraina. Ma mi hanno risposto che sono troppo vecchio per stare in prima linea, dove si deve correre, scattare quando succede qualcosa. Eppure sentivo che non potevo assistere in modo passivo a tutto ciò: dovevo fare qualcosa per fermare questa guerra. O perlomeno per raccontare quanto avveniva. Così, parlando con un amico giornalista che ora lavora per il governo di Kiev, un ucraino di origine afghana, Mustafa Nayyem, ho capito che avrei potuto dare un contributo raccontando le storie di quanti avevano dovuto lasciare tutto e fuggire.
Come è entrato in contatto con le persone di cui racconta la storia e, malgrado siano tutte strazianti, c’è una vicenda che l’ha colpita in modo particolare?
Paradossalmente è stato abbastanza facile. Intanto leggevo quello che molte di queste persone raccontavano sui social e li ho contattati allo stesso modo. Poi ho incontrato coloro che stavano arrivando nei campi profughi in territorio russo. Almeno per le prime settimane era abbastanza facile entrare in questi campi e parlare con chi era stato costretto a fuggire dall’Ucraina. Oggi sarebbe impossibile perché l’intelligence ha preso il controllo dei centri e non farebbe mai avvicinare un giornalista. Quanto alla storia che mi ha colpito di più, non ho dubbi: è quella del bambino di Mariupol. Mentre la colonna di auto sta uscendo dalla città ci si accorge che all’.appello manca un bambino di cinque anni, ma hanno deciso di non fermarsi, perché è troppo pericoloso. Lui era spaventato e si è andato a nascondere tra i ruderi di una casa bombardata, così quando si sono messi in marcia non lo hanno trovato più. (...)