«Dunque siamo tornati ai processi alle parole? Anzi, no, neanche a quelle, alla loro interpretazione?». Così nel 2017 Maksim Smysliaev, uno studente universitario russo, si rivolge al giudice che poco dopo lo condannerà a dieci anni di colonia penale a regime duro per aver twitatto con un 17enne.ucraino accusato di terrorismo. Quella di Maksim è una delle "ultime dchiarazioni" raccolte in volume dall'associazione Memorial, insignita del Nobel per la pace, che ritirerà il 10 dicembre insieme all'attivista bielorusso Ales' Bjaljacki e all'associazione ucraina Centre for civil Liberties . Ne è nato il libro Proteggi le mie parole (edizioni e/o, pagine 192, euro 16,50), curato da Sergej Bondarenko e Giulia De Florio, in uscita mercoledì in prima mondiale. Il titolo della raccolta deriva da un verso di Osip Mandel'stam, poeta finito nelle mire del regime comunista per un'ode critica verso Stalin e poi morto in un gulag. Sempre parole, insomma, materia quanto mai incandescente per i regimi totalitari. Questi di discorsi di discolpa, permessi dall'ordinamento russo, diventano occasione sì per discolparsi, senza troppe speranze, ma soprattutto per esporre in pubblico fatti e opinioni. Alcuni imputati sono celebri e dei veri e propri "abbonati" a tale prassi. Come l'oppositore di Putin Aleksey Naval'ny, contro il quale sono stati intentati almeno 10 procedimenti. Altri sono meno noti da noi, ma comunque attivisti per i diritti umani, come il collaboratore ceceno di Memorial Ojub Titiev. «In fin dei conti cosa sono io? Una voce sola... Ma come me ce ne sono milioni, anzi centinaia di milioni. In questo Paese però un cittadino non vale niente», le sue amare parole. Ci sono anche giovani blogger, come Egor Žukov («non sono un estremista né per quanto riguarda la linguistica, né per ciò che attiene al buon senso», dice al tribunale). E ancora alla sbarra sono finiti avvocati, registi, giornalisti, ricercatori universitari, ambientalisti, oppositori politici, manager. Uno spaccato dell'intera società russa. (...)