Una doppia ombra, quella reale di Bolaño e quella finzionale del venerato scrittore T.C. Elimane, guida il cammino del protagonista e narratore messo in campo da Mohamed Mbougar Sarr: «La più recondita memoria degli uomini», premiato con il Goncourt in Francia nel 2021, romanzo denso, ampio, sovrastato da una intelligenza parodica, da e/o
«La più recondita memoria degli uomini è la storia del tentativo di un giovane scrittore senegalese, Diégane, di dare un volto e una storia a Elimane, lo scrittore suo conterraneo che è diventato per lui mito e ossessione dopo la lettura del suo libro unico e supposto capolavoro, Il labirinto del disumano, di cui noi non leggiamo altro se non le prime tre righe. Di Elimane però si scopre poco alla volta la vita, anche se da lontano, come attraverso un cannocchiale sfocato. Ed è una biografia che cambia di segno nel corso del romanzo, un collage i cui lembi non collimano e che restituiscono una immagine troppo composita per essere credibile. La sua stessa opera, del resto, si scopre essere null’altro che un plagio, una giustapposizione di opere altrui che però, Diégane ne è convinto, «danno vita a un’opera originale, un vero capolavoro».
Il problema della ricerca letteraria come ripetizione, come variazione e scarto da un palinsesto, è dunque esplicitato nel testo. La vita di Elimane, che un critico entusiasta ha definito «Rimbaud negro», sembra essa stessa un calco, e per buona parte della narrazione, ripercorrendone le traiettorie tipiche, sembra riprodurre la biografia ideale di uno Scrittore Europeo del Novecento: vive la sua formazione letteraria a Parigi da libertino, scrive nei Café degli anni Trenta (avrà conosciuto Hemingway o Joyce?), partecipa a piccole azioni di Resistenza nella Francia occupata («roba da boy-scout», come Beckett) poi emigra in America Latina (come Zweig), più esattamente in argentina (come Gombrowicz, del quale infatti diventa amico).
Troppo perfetto nella sua parabola esistenziale – esilio, stesura del grande romanzo, poi silenzio, avventure tropicali, mistero (e persino la caccia a un nazista sulle Ande) – troppo serioso (fin dal metafisico titolo del suo «capolavoro») per non far pensare a uno scherzo letterario: Sarr costruisce un personaggio impossibile, e occulta all’ombra di un narratore «miope» quale il romantico Diégane, convinto di inseguire un dio minore che lo illumini sul cammino della vera letteratura, una intelligenza parodica che ha il merito di non deflagrare all’interno della narrazione e che resta invece sospesa sul romanzo come un agente atmosferico. È una intelligenza che si rivela in quanto tale soltanto alla fine della seconda parte del libro, quando il ritratto «composto» di Elimane si tinge finalmente di «africanità», ma lo fa con un twist indimenticabile che cala improvvisamente l’avventura di Diégane in un esotico e ancestrale racconto del terrore. Comica e sanguinaria allo stesso tempo, questa svolta offre da un lato la parte «negra» che mancava alla biografia di Elimane per compiersi in quanto parodia, dall’altro completa una immagine pittorica che assume soprattutto i connotati dell’allegoria: forse, un’allegoria della condizione dello scrittore, non più e non solo lo scrittore africano in Europa, o lo scrittore nero tra i bianchi («osiamo la parola», scrive Diégane), ma lo scrittore tout court, abitato da fantasmi di una impossibile vendetta, e consacrato alla sua estraneità dal mondo».