Damon Galgut ha vinto il Booker Prize 2021, il premio più prestigioso della narrativa anglosassone, con La promessa e ora e/o, suo editore italiano, pubblica Il buon dottore (pagg. 252, euro 18), il romanzo del 2003 che fu selezionato anch'esso per il Booker (come poi il successivo In una stanza sconosciuta ) e portò l'attenzione laggiù, nel suo Sudafrica, su un autore giovane (è nato a Pretoria nel 1963), nello stesso anno in cui il mito letterario nazionale, J. M. Coetzee, vinceva il Nobel. Galgut è a Mantova, per il Festivaletteratura, dove oggi (ore 12) parlerà del «Fuoco sacro della scrittura». Damon Galgut, uno dei temi che ricorre nei suoi romanzi è il fallimento. Perché? «Sul piano politico è difficile, per il Sudafrica di oggi, sfuggire a questo tema. Nel 1994, alle prime elezioni democratiche si accompagnava la speranza di un futuro e una visione nuovi; oggi credo che nessuno abbia più questa speranza. Il progetto di un nuovo futuro si è rivelato un fallimento». E sul piano personale? «Sono attratto verso questo tema perché ogni vita ha un suo progetto, ma nella maggior parte dei casi non viene realizzato. Ripeto, però, che è un tema ovvio per il Sudafrica, così violento». La violenza è ancora forte? «Sì, la nostra è una delle società più violente; anche le statistiche, per quel che contano, dicono che ci sono più omicidi che in ogni altro Paese. La violenza è tipica di una società traumatizzata, che non abbia superato il suo trauma». Nei suoi romanzi ci sono richiami alle rivolte di Soweto del '76, lei le ricorda? «Ero a scuola quando successe. Ci dicevano di nasconderci sotto le scrivanie in caso di necessità, ma nessuno, allora, ci dava spiegazioni politiche: la violenza era qualcosa che poteva arrivare e da cui dovevi proteggerti. I miei genitori non volevano mai discutere di politica in casa e non mi hanno mai parlato dell'apartheid; perciò ho dovuto imparare tutto da solo, e ho impiegato anni a capire perché siano successe queste cose». Fra i suoi personaggi c'è chi vive e chi si limita a sopravvivere. «Anche questo è da ricondurre ai sogni del Sudafrica, in contrapposizione a come siamo finiti... Puoi vivere la tua vita, se hai soldi e risorse, altrimenti sopravvivi e cerchi un modo per tirare avanti. Ed è ciò che fa la maggioranza delle persone. Sul piano individuale, invece, molti hanno dei sogni ma poi, nella realtà, pochi riescono a vivere la vita che immaginavano: la maggior parte di noi si accontenta di ciò che la vita gli dà». (...)