Nella seconda metà degli anni Novanta in Sudafrica, all’ottimismo e all’euforia che salutarono la fine dell’apartheid e la vittoria di Nelson Mandela nelle elezioni del 1994, fece seguito un periodo segnato dalle ambiguità morali e politiche di un regime mutato radicalmente in maniera troppo repentina. Mentre gli scrittori che cercavano di raccontare il nuovo Sudafrica, pur sottolineando le incongruenze del presente, guardavano comunque al futuro con qualche fiducia (lo stesso Coetzee offre uno spiraglio di speranza sul finale del suo sconsolato Vergogna), nel paese veniva opponendosi all’idealismo dei giorni della lotta un razionale pragmatismo.
L’idea, di per sé inoppugnabile, che non tutto si può ottenere in breve tempo, conduceva, in parecchie situazioni, a un attendismo sterile, quando non alla riproposizione di stereotipi del passato. A un decennio dalla fine dell’apartheid, nel 2003, Damon Galgut, rendendosi conto della persistenza di ingiustizie, privilegi, corruzione e abusi di potere, decise di fare il punto sul nuovo Sudafrica in un romanzo, Il buon dottore, imperniato proprio sullo scontro tra volontà di cambiamento utopista e apatica rassegnazione. Già pubblicato da Guanda nel 2005, il romanzo è ora riproposto da e/o (traduzione di Valeria Raimondi, pp. 245, € 18,00).
Non è, dunque, un lavoro recente quello che Galgut presenterà giovedì prossimo al Festivaletteratura di Mantova, ma un testo di quasi vent’anni fa, in cui non compaiono ancora le audaci sperimentazioni che contraddistinguono La promessa, lo straordinario romanzo con cui Galgut ha vinto il Booker Prize lo scorso anno. Tuttavia, già si riconoscono, fra le pagine del Buon dottore, la voce, l’ironia tagliente e lo sguardo disincantato che lo scrittore sudafricano getta con amara empatia sulla realtà del suo paese.
Spazi e luoghi indeterminati
Definita dal protagonista-narratore «una storia senza finale, forse persino senza trama», la vicenda del romanzo ruota intorno al conflitto tra due medici bianchi in un fatiscente ospedale sul remoto confine di quello che fu un homeland, ovvero, secondo la spiegazione dello stesso autore, una di quelle «aree impoverite e sottosviluppate riservate dal governo dell’apartheid all’ ‘autodeterminazione’ delle varie ‘nazioni’ nere». Di quale confine si tratti non è specificato e neppure in quale città sia situato il nosocomio attrezzato cui vengono tradotti i malati più gravi: come nel Coetzee di Aspettando i barbari o di La vita e i tempi di Michael K., anche qui la narrazione ha l’andamento di una parabola in cui l’indefinitezza dei luoghi corrisponde all’ambiguità dei tempi, mentre i due protagonisti sono l’uno figura del pragmatismo rassegnato (e opportunista) subentrato all’entusiasmo post-apartheid, l’altro personificazione di un idealismo integralista e intransigente.
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Come già nella Promessa, anche qui Galgut non offre nessun conforto a chi legge, né predispone una qualche catarsi. Del resto, lo scrittore sudafricano ha sempre rifiutato le rassicuranti convenzioni narrative del romanzo borghese: «Il mondo in cui viviamo non è coeso, non è coerente, non ha tutte le risposte e i buoni per lo più non vengono premiati e i cattivi non vengono puniti», ha ribadito a quanti lamentavano la natura disturbante dei suoi lavori.
Certo, Il buon dottore è un romanzo più amaro della Promessa: tuttavia, la petulanza di Laurence, e la caratterizzazione di certi personaggi minori come una litigiosa coppia di medici cubani, il vanesio padre di Frank o il terribile generale scoperto nel cuore della notte a innaffiare le piante del suo palazzo abbandonato, sembrano anticiparne l’umorismo dissacrante. Del resto, l’intera vicenda è posta sotto l’egida di una notazione ironica: un’epigrafe da Cechov secondo cui «Centinaia di verste di steppa deserta … non possono ispirare sconforto più grande di un uomo che se ne sta seduto a parlare e non si sa quando se ne andrà». Apparentemente incongrua rispetto alla narrazione che segue, l’epigrafe troverà spiegazione nelle parole con cui Frank chiude il suo racconto: «forse le cose sarebbero andate diversamente, se non avessi mai dovuto dividere la stanza con qualcuno». In ultima analisi, fatti e misfatti del romanzo sono causati principalmente dall’intollerabile difficoltà di condividere con altri il proprio spazio.