Inizia così, partendo dalla metà degli anni Ottanta, il romanzo che ha vinto il Booker Prize 2021, la saga di una famiglia di afrikaner. Una saga familiare di quelle che riescono a raggiungere le dimensioni di un monumento senza acquisirne il peso grazie a una scrittura che volteggia senza incontrare inciampi. Una scrittura inafferrabile e fluida che denota una tecnica incredibilmente padroneggiata. Niente lineette o virgolette: i discorsi diretti sono inseriti nella narrazione terza con disinvolte piroette degne di Antonio Gades, passando per periodi declinati all’io narrante che può incarnarsi di volta in volta in un personaggio diverso e tornare senza ostacoli alla narrazione neutra nella quale compaiono e scompaiono pensieri in soggettiva. Quello che già Hemingway e Bellow avevano sperimentato viene qui portato alla perfezione stilistica. In questo è percepibile il fatto che l’autore è nato praticamente con la penna in mano: inizia a scrivere a sei anni, convalescente in ospedale per un cancro infantile. Il suo esordio letterario avviene a diciassette. Ora che di anni ne ha cinquantanove si direbbe che un po’ di praticaccia sulle spalle ce l’ha. E allora può permettersi di infischiarsene delle regole formali di grammatica, sintassi e punteggiatura. Semplicemente perché raggiunge l’obiettivo, che è quello di farci entrare in una storia e condividere sensazioni. Che è quello di far entrare la palla in porta. Quando un Campione dimostra di raggiungere l’obiettivo non si può imputargli di non avere seguito i dettami accademici. Sarebbe come criticare Maradona per il fatto di essere andato in gol contro l’Inghilterra attraversando tutto il campo senza passare mai la palla e di averla toccata per 11 volte solo di sinistro. I manuali di calcio non lo contemplano, ma il risultato si chiama Goal. E allora zitti tutti. Recensore in primis.