È grande lettore nonché amico di Joe R. Lansdale e Victor Gischler, con cui condivide lo spirito del nuovo noir americano. È stato accolto da Tim Willocks con «un caloroso benvenuto nella fratellanza dei romanzieri folli, maledetta da Dio e benedetta dal Diavolo».
S’ispira a Massimo Carlotto ma ha fatto tesoro delle lezioni del cinema di Quentin Tarantino, Robert Rodríguez e Sam Peckinpah. Matteo Strukul, nato a Padova nel 1973, dottore di ricerca in diritto europeo all’Università Ca’ Foscari di Venezia, con esperienza nel settore editoriale e con diverse pubblicazioni saggistiche all’attivo, è cofondatore di Sugarpulp – movimento letterario dedicato al pulp-noir. Col suo primo romanzo – che esce proprio in questi giorni – esordisce Mila Zago aka Red Dread (la quale, ad essere precisi, ha fatto la sua prima comparsa in un racconto scritto per Il Manifesto, “Bambini all’inferno”), personaggio indelebile e riuscitissimo, giustiziera non appesantita da spasmi di moralismi, condannata a scontrarsi contro il marcio perché il marcio le si è scagliato contro. Ho fatto quattro chiacchiere con lui a partire dal progetto di “sabotaggio culturale/sociale” entro cui si inquadra il libro.
Il tuo romanzo si inserisce nel progetto Sabot/age, la nuova collana delle edizioni e/o «dedicata alle storie che il nostro paese non ha più il coraggio di raccontare» (collana, ricordiamolo, diretta da Colomba Rossi e curata da Massimo Carlotto). Tu cosa ti senti di aver sabotato?
Il mio romanzo cerca di ricostruire le dinamiche e i meccanismi della mafia cinese nel territorio del Nordest italiano. Il fenomeno del riciclaggio del denaro sporco con cui lavare i proventi maturati dallo spaccio dell’eroina uoglobe, il traffico di esseri umani attraverso il ricatto del permesso di soggiorno, i turni massacranti nei laboratori tessili clandestini con cui riscattare le migliaia di euro con cui vengono pagate le condizioni di legalità per rimanere nel nostro Paese, la concorrenza sleale operata in barba a qualsiasi diritto umano ancor prima che direttiva comunitaria o legge interna. E poi una ricostruzione delle dinamiche delle triadi, la storia delle società segrete, le nove sorelle di Hong Kong, la 14 K, il mito delle tigri di Shaolin. Per provare ad illustrare questi aspetti ho scelto il registro pulp perché credo che non sia giusto delegare in via esclusiva al noir il racconto della criminalità reale e globalizzata; ritengo piuttosto che ciascun genere narrativo possa rappresentare una chiave utile e interessante per illuminare e svelare certi meccanismi. Da qui il senso di una collana come Sabot/Age che guarda prima al contenuto piuttosto che al genere, tanto più che “La ballata di Mila”, proprio grazie alle geometrie del pulp, sconfina spesso nel western, nella fantascienza di serie B, nel noir e nel gore. Detto questo, circa un mese fa proprio a Padova è stata smantellata una cupola cinese con una cinquantina di esercizi affiliati, questo per dire quanto il tema sia drammaticamente attuale.
Le dinamiche della criminalità e dei traffici che convergono nell’economia sommersa sono inseriti fluidamente nel narrato, ma è come se il lettore percepisse i dati solidi sui quali la scrittura ha intessuto la storia. Come ti sei documentato?
Be’, mi sono documentato con una certa ampiezza di fonti: articoli di cronaca, monografie, colloqui, in questo senso l’aver studiato legge e poi aver conseguito un dottorato in diritto europeo dei contratti ha certamente acuito l’attenzione nei confronti di un tema ancora molto oscuro e poco frequentato. D’altra parte non volevo certo uscire con un’indagine travestita, non sono certo un giornalista di cronaca, non ho quel tipo di competenza, piuttosto ho cercato, come hai detto bene tu, di avere una trama che potesse lucidare le informazioni dove era opportuno inserirle. Spero di esserci riuscito.
L’ambientazione veneta mette in luce una territorialità che è denuncia amara ma anche dichiarazione d’amore, sembra quasi sottintendersi un legame passione/odio verso una regione in cui un qualunque Rossano Pagnan potrebbe fare strada diversificando i rami di attività: strozzinaggio, traffico d’armi, rapine a mano armata e molto altro. Hai scritto un libro che si inserisce nel filone Sugarpulp, perché «affonda le proprie radici nella natura fiera e selvaggia del Nordest, una terra epica, per certi aspetti ancora legata alle tradizioni arcaiche, e che tuttavia ha saputo assecondare i processi di una modernizzazione necessaria ma anche impietosamente perseguita»...
Sugarpulp è appunto questo, no? Amo la mia terra, non ne faccio mistero, Salgari e Carlotto sono due maestri molto presenti nella mia storia, a diverso titolo. E poi c’è il territorio, con tutta la sua selvaggia bellezza, penso alla Bassa o al meraviglioso Altopiano dei Sette Comuni. Il Veneto è una regione molto varia che passa dal mare alle montagne più impervie. Tuttavia il Nordest contiene in sé quella spregiudicatezza che nel bene ha permesso a questa regione di essere il motore silenzioso dell’economia di questo Paese – penso a tutte le piccole e medie aziende leader mondiali nella produzione di scarpe od occhiali solo per citare due esempi – nel male ha portato ad un clima da Far West che ha acuito le differenze fra ricchi e poveri. Siamo atavicamente divisi, incapaci di fare sistema; è anche per una questione culturale che cediamo il passo allo strapotere cinese. Perché sono molto più uniti di noi, questo è il punto. Poi, certo, c’è la dimensione romanzata, che non va affatto sottovalutata, d’altra parte a leggere la cronaca locale si rimane quasi sempre con molto materiale per romanzi noir fra le mani.
La figura di Mila e la costruzione di un’eroina (o anti-eroina). Mila Zago, bambina vittima divenuta adulta carnefice, killer implacabile in cerca di vendetta, si muove flessuosa con un look atipico: dreadlock rossi, occhiali gialli, stivali. Com’è nata e come è stata successivamente ideata?
Mila è nata giorno per giorno. Volevo dare da subito il ruolo di protagonista a una donna, ma volevo che fosse un personaggio destabilizzante, in grado di rovesciare i cliché. Non volevo una dark lady o un’investigatrice. Non volevo rassicurare. I miei modelli erano per certi versi la Nikita di Luc Besson e “La sposa” di Kill Bill, ma anche la Catwoman interpretata da Michelle Pfeiffer in “Barman: il ritorno” di Tim Burton. Il punto era, ed è, che Mila non ha paura di nessuno: è un personaggio con un passato e un presente tragico che ha la forza e la determinazione di andare fino in fondo anche se questo significa “oltre”. Mi piaceva l’idea che fosse lei a gestire la storia e le sorti di tutti i personaggi maschili che poi è quello che succede nella realtà. Insomma è sempre la donna a condurre le danze no? Solo che non so perché, nella narrativa italiana c’è questo strano concetto, specie in quella cosiddetta di genere, che la donna non possa avere il ruolo principale e, se lo ha, dev’essere comunque qualcosa di rassicurante, di non pericoloso. Le cose stanno cambiando naturalmente, e tu lo sai meglio di chiunque altro, ma non abbastanza. Ecco, volevo dare il mio contributo a quella che spero sia una rivoluzione. Una donna può fare qualsiasi cosa se vuole. Uomini state attenti, eh eh.
Quali sono le tue figure femminili letterarie e cinematografiche di riferimento?
Be’ cinematografiche le ho dette, per la letteratura direi: Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, la spietata Milady de “I tre moschettieri”, ma anche la Jo di “Piccole Donne” di Louisa May Alcott, insomma mi piacciono le figure femminili che hanno un forte impatto sulla storia. Niente comprimarie, non fanno per me e soprattutto niente tradizione, adoro le protagoniste capaci di rovesciare il destino oppure di seguirlo fino in fondo al punto da bruciarsi con esso. Insomma Elena di Troia fa scatenare una guerra ma rimane più o meno dietro le quinte per tutta l’Iliade, una donna oggetto ante litteram, vogliamo parlare di una come Brunilde nel “Nibelungenlied” vinta da Gunther nel duello solo perché c’è Sigfrido, avvolto dalla Tarnkappe, che gli dà una mano di nascosto, barando? Tutta un’altra storia.
«Per infinocchiare meglio quegli zotici di leghisti bisogna dar loro la sensazione di essere completamente integrati» (p.32, pensiero di Guo Xiaoping, boss cinese che controlla area veneta, ndr). La criminalità straniera si consolida anche grazie all’integrazione mancata e all’ignoranza diffusa?
Certo, “anche”. Bisogna anche vedere quanta reale volontà di integrazione ci sia da parte dell’immigrato. Nel caso specifico quello che ho notato, studiando il fenomeno, è che da parte del popolo cinese vi è una fortissima chiusura, un sistema autoconcluso che cresce attraverso i legami di guanxi e che tende a rimanere impermeabile all’esterno. Quindi, in realtà, ogni immigrato ha un approccio completamente diverso. Non parlo da esperto, ovviamente, ma la sensazione è questa. Certo, la mancata conoscenza delle reciproche culture rappresenta il vero problema, colpisce in città come Amsterdam o Berlino, ad esempio, l’importanza che ad ogni comunità etnica viene attribuita dall’amministrazione locale. Penso alle feste della comunità Tailandese o Turca a cui ho partecipato, in cui il momento ludico o comunque ricreativo è grimaldello per forzare le serrature della differenza di razza colore e religione per trasformarla in condivisione reciproca. Cultura e cucina sono percorsi antropologici insostituibili per avvicinare uomini e donne che appartengono a popoli diversi. Perché, in tre parole: abbattono la paura.
Questo è il tuo primo romanzo, anche se hai diversi trascorsi con la scrittura: hai pubblicato saggi musicali su Massimo Bubola e Massimo Priviero, testi di critica, sei co-fondatore del movimento Sugar-pulp. Lavori nell’editoria da anni e proprio sulla base della tue diverse esperienze ti faccio una domanda più estesa. Se tu dovessi fare una panoramica della situazione odierna in Italia degli autori della tua generazione, che pubblicano in questi anni, cosa diresti?
Gli autori della mia generazione dovrebbero avere più coraggio. Per quello che ho visto fino ad ora c’è una curiosa tendenza al vittimismo. Come se la mia generazione fosse minacciata da non si sa quale Colombre. Certo, su piani diversi – il lavoro, la possibilità di raggiungere posti di responsabilità ad un’età ancora relativamente giovane, le garanzie, le sicurezze per il futuro – non è affatto così, lo dico a chiare lettere: siamo stati stuprati dai nostri padri. Ma come autori il discorso cambia. C’è anzi una tendenza a sentirsi autori a tutti i costi, a fare i dilettanti della scrittura, e ciò grazie anche a un mercato editoriale drogato da formule come l’editoria a pagamento o quella on demand. Anche attraverso questi meccanismi si crea un’ipertrofia a livello di produzione che nasconde la vera qualità. Comunque di autori della mia generazione interessanti ce ne sono, ci mancherebbe (ne cito uno: Omar di Monopoli), anche se, come dicevo, tendono a volte ad adagiarsi su una narrativa old fashioned. Resta il fatto che siamo un Paese che non legge, da una parte, e dall’altra critichiamo i ragazzi perché leggono i libri fantasy con vampiri e licantropi. Credo che dovremmo prendere in seria considerazione i tempi in cui viviamo. Un libro oggi, secondo me, dovrebbe sempre più tener conto dei diversi linguaggi espressivi: cinema, fumetto, videogame. Provare a prendere da questi canali spunti capaci di ritmare le storie, spicchi creativi nuovi, invece questo tipo di narrazione è comunemente considerata di serie z. Troppo pop, banale. Tuttavia, credo sia proprio dalla contaminazione che nasce la linfa nuova e magari una narrativa meno ingessata e più legata al tempo in cui viviamo, capace di coinvolgere anche i lettori più giovani. Come certamente saprai, sono le donne a leggere di più: ecco “La ballata di Mila” è il mio modo per dire loro “grazie”.