Nel romanzo che ha vinto il Booker Prize l'allegoria di un'intera nazione
Un buco a forma di Ma. Comincia così "La promessa", il denso, affascinante romanzo vincitore dell'ultimo Booker Prize, di Damon Galgut, scrittore nato a Pretoria e pubblicato in Italia da e/o (nella traduzione di Tiziana Lo Porto): con una madre che muore dopo lunga malattia, aprendo una voragine intorno alla quale rapidamente si mette in moto un turbinio di uomini e cose. Gravitano intorno alla sua assenza prima di tutto i tre figli: Anton, frustrato dall'impossibilità di raggiungere i suoi sogni, Astrid radiosa di bellezza, e Amor, che ha solo tredici anni, ma sa osservare così a fondo da sperimentare non di rado la chiaroveggenza. La sola a vedere persino la domestica Salomé, che essendo nera, in una Johannesburg in pieno apartheid, è condannata all'invisibilità. Il lutto è solo il primo di questa saga familiare che segue la storia e la politica del Sudafrica. Anzi, i funerali la scandiscono, perché a ogni morte corrisponde una resurrezione, e dal dolore nasce sempre una speranza. Nonostante un vischioso senso di colpa, che sa di promessa non mantenuta a morti che nulla possono più, tutto attanagli emanando disagio e turbamento, continuando a inseguire per il mondo, infastidendo all'improvviso come un estraneo che importuna per strada. Ma la promessa è troppo grossa - persino provocatoria - per essere mantenuta negli anni Ottanta del Paese. Perché accada dovranno passare oltre 30 anni (...).