A delimitare il foglio bianco c’erano anche due righe rosse verticali, una a sinistra, una a destra. Occorreva iniziare, continuare, finire dentro, lasciando intonsi i bordi, disciplinando le andate a capo e l’ordine della pagina intera (ora con il computer si fa più o meno lo stesso, si progetta la pagina come la si vorrà vedere, si stabiliscono i caratteri e i parametri del paragrafo).
Scrivere era muoversi all’interno di quelle righe, vergare le parole di un dettato entro quei margini. Ciò dava soddisfazione e, al contempo, segnalava una perdita, uno sciupio, un desiderio di sregolatezza.
Per tutta la sua vita di scrittrice Elena Ferrante ha sofferto e goduto di entrambe le modalità di scrittura: l’acquiescente e l’impetuosa. Si è sentita una voce di donna sempre sballottata fra la consueta scrittura ben calibrata e tranquilla e un’altra che irrompe di rado, refrattaria a generi e punteggiature.
In realtà, non sono separate: la prima ha dentro di sé la seconda, pazientemente attende di esserne svirgolata, grazie al continuo frastuono ordinato-disordinato in cui è immerso il nostro io fatto esclusivamente di parole. Scrivere è divenuto disporre frammenti in un incastro e aspettare di scombinarlo: la propria bella scrittura diventa (più) bella quando perde la sua armonia e acquista la forza disperata del brutto. (...)