Elena Ferrante racconta il suo rapporto con la scrittura, entusiastico, ponderato, convulso, ironico, autoironico. Lo fa all'Arena del sole da stasera a venerdì, sempre alle 20.30, nell'ambito delle «Umberto Eco Lectures»
(...). Gli spettatori del ciclo dedicato alla Ferrante, intitolato «La scrittura smarginata», ascolteranno tre conferenze: «La pena e la penna», «Acquamarina», «Storie, io», in libreria da oggi nel libro delle Edizioni E/O «I margini e il dettato», che comprende anche un testo composto per la chiusura del convegno bolognese degli italianisti su Dante. Naturalmente Elena Ferrante non sarà in scena: leggerà i tre saggi Manuela Mandracchia, nota attrice di prosa, cinema e televisione. L'abbiamo intervistata.
Di cosa trattano le lezioni?
«Del suo modo di scrivere. Lei riconosce due modalità di composizione, sempre compresenti: una acquiescente, ordinata, educata a stare dentro i margini, e un'altra convulsa, scatenata, strafottente. La prima è utile a determinare le strutture dei racconti, l'altra a deformarle, in una tensione continua a creare forme e ad aprirle. Cosa che riscontro nei suoi romanzi».
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Quali altri meccanismi rivela Elena Ferrante?
«Parla di capacità di sparire nella scrittura, quasi che l'epopea dell'Amica potesse raccontarsi da sola. E fa emergere un altro tema: come sia complicato raccontare la vita qual è. Perché noi siamo pieni delle cose che abbiamo letto, di immagini, di suggestioni, che spesso si affastellano. A leggere i romanzi sembra che la scrittrice non abbia fatto fatica, e invece procede per accumulo e selezione. In questo trovo che il suo lavoro sia simile a quello dell'attrice».
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Quale è la cifra di queste lezioni?
«Non c'è retorica né autocompiacimento, ma tanta ironia e autoironia, in quanto lei gioca continuamente con la paura di fallire, di non essere all'altezza, e il desiderio di riuscire a scrivere. È molto onesta in questa continua tensione tra il timore e la speranza di concludere l'opera e di essere riconosciuta».