Mi era caduto l’occhio su questo libro l’avevo adocchiato qualche tempofa, quand’era solo una nuova edizione della e/o, poi tutto il clamore nato intorno al premio Strega che l’aveva coinvolto me l’aveva fatto mettere da parte per un po’. E devo dire che tutta la pomposità con cui la casa editrice lo accompagna in terza e quarta di copertina non deponevano molto a favore: provo sempre un certo fastidio quando ho la sensazione che mi si voglia convincere della bravura di un autore o della bontà di un’opera ancor prima di affrontarli.
Per fortuna Viola di Grado, autrice di Settanta acrilico trenta lana è davvero una scrittrice notevole. E poco importa che di anni ne abbia ventritre oppure settanta: scrittori non ci si improvvisa, si diventa grazie a delle attitudini, delle predisposizioni personali e poi, ovviamente con la pratica, la costanza, l’esercizio e la lettura a propria volta. Accade, ad un certo punto, nella vita di uno scrittore: prima o poi è un dettaglio che non influisce perché quello che rimane, in fondo, è la parola scritta. All’autrice in questione la parola (le infinite possibilità che le parole, prese singolarmente o intrecciate in lunghe catene espressive) piace profondamente, ha imparato ad usarla con raffinatezza e, bontà sua, ce ne rende partecipi.
La lettura è intensa, la trama quasi angosciante: madre e figlia, cariche di fissazioni e follie, dopo la morte del marito e padre, spingono le loro silenziose esistenze fino a raschiare il fondo con le unghie, risicando il dialogo fino a poche eloquenti occhiate quotidiane. Poi la vita, una qualsiasi forma di brama di vita, interviene per continuare a spingerle appena poco più su del limite che le farebbe affogare. Ad ognuna viene fatta intravedere una possibilità…
Si legge d’un fiato (sì, lo so, lo dico di un sacco di libri, ma questa volta vale davvero!).