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Mathias Enard al suo meglio

Autore: Marco Rossari
Testata: Rivista Studio
Data: 22 settembre 2021
URL: https://www.rivistastudio.com/mathias-enard-recensione/

Il banchetto annuale della confraternita dei becchini, appena uscito per edizioni e/o, è un trionfo dell'erudizione giocosa e dell'affollamento pittorico tipici dello scrittore francese.

(...)

Che stia esplorando la Siria o che stia sprofondando in una piccola regione tutto sommato poco significativa, Enard fa Enard. Vive in un mondo e in una struttura letteraria a sé, dove se ne ha voglia può raccontare il viaggio in Europa di un ragazzo maghrebino o il punto di vista di un cecchino in una guerra balcanica o Michelangelo a Istanbul in preda ai turbamenti sulla propria grandezza. Genera una categoria autonoma, come in Italia certe cose di Bufalino, Eco, Mari. O, per andare altrove, come in quel romanzo incredibile di Mo Yan che è Le sei reincarnazioni di Ximen Nao. È strano: anche quando dialogano con la realtà (come nel caso di Via dei ladri, ma anche in questo nuovo romanzo compaiono ecologia e femminismo, sebbene in forma grottesca, deformata), questi romanzi sembrano estraniarsi dal mondo e parlare con sé stessi per poi rivolgersi – liberi, liberati – di nuovo al lettore, e al presente. Che però va continuamente guardato fuori fuoco, di carambola.

In un’intervista Enard raccontava d’essere partito da ambizioni professorali e quindi, nonostante fosse disgustato dall’accademia, avesse esitato a prendere la strada del romanzo, in quanto frivola. E quant’è buffo che poi questa scelta abbia comportato sì una frivolezza, ma nel senso di festosità altissima, di vivacità lessicale e strutturale, di movimento dirompente nell’arte del romanzo, pur conservando i principi dotti di partenza: studio, puntualità di riferimenti, rigore. Qui, tutto cospira all’erudizione giocosa. E non giocosa in senso sminuente, ma al contrario esaltante, euforica, divertita, anche quando è commovente o cupa, a seconda della modulazione (d’altro canto non c’è niente di più esilarante della morte), un’eredità che viene da Rabelais, da Villon, dalle ballate medievali. La prosa di Enard ha un gusto carnascialesco, un affollamento pittorico, un piccante virtuosismo. Il Banchetto è un viaggio nella Francia profonda ma anche nelle profondità del tempo, un tour de force allucinato, una millefoglie letteraria (come ha scritto giustamente Sophie Joubert in Francia), un catalogo dei vivi e dei morti e dei savi e degli stolti, una cronica dei personaggi (non) illustri (perché tutti livellati), un censimento cosmico, un’apocalissi continua, una lapide di carta, il menù dell’eternità della nostra esistenza che è sempre à la carte. Un libro mortifero, e quindi sensuale; un libro di anime, e quindi corporeo. E d’altra parte Enard sa che la nostra sublime, miserabile contraddizione è proprio questa: che siamo fantasmi di carne, e null’altro.