“Fuori gli alberi sono poesie cantate dal vento
Il cielo, una ferita che lascia intravedere l’osso
Mi è stato dato un percorso da seguire:
Il gancio, il focolare, la collina
Ero nata per essere il tuo letto
E sempre per quello sono nata.”
Seguiamo Kae Tempest con la certezza che incontreremo asperità interiori mescolate ad una prosa che si fa rutilante, insistente.
È l’urgenza di cercare l’oggetto corpo, di misurarne la resistenza.
Il tentativo di raggiungere l’insondabile camminando per le strade di una città dove i ricordi sono racchiusi “in scatole di cartone”.
“Se riesco a scordarti, magari ritorni
Mi ami ancora ma non puoi promettere niente
Se ti aspetto, non cambierà nulla, non farò
Quello che tu vuoi che faccia.”
“Un arpeggio sulle corde”, pubblicato da Edizioni e/o, si muove facendo apparire lividi e ferite.
La parola è volutamente scostante, aspra, accoppiata ad aggettivi che danno profondità alla frase.
Si rimbalza all’interno di percezioni che raccontano la quotidianità.
Sono scorci, episodi, libere associazioni.
Sono la libertà di non affidarsi all’asfissia della rima.
Il rumore assordante di un telefono che squilla, i ricordi di un corpo che è incontro mai concluso.
“Per favore io sono qui in mezzo al palco, prendimi per
le mani fluttuanti”
Le liriche hanno la spontaneità di chi vuole cercare nell’altra inizio e fine, sono sorgenti non inquinate da sentimentalismi.
Hanno la purezza della scoperta, la malinconia del rimpianto e la tenerezza di una gestualità estrema, graffiante e sincera.