È ASSOLUTA, invalicabile la solitudine di chi abbandona in un abisso remoto la verità della propria anima, ne ha terrore, ne subisce il mistero con rabbia impotente. Questo dolorosissimo sentimento attraversa come un lancinante rumore di fondo la narrazione di “Macello”, nuovo romanzo di Maurizio Fiorino, edito da e/o e arrivato da pochi giorni nelle librerie. Dove le solitudini dei personaggi sono monadi rocciose eppure fragilissime, pronte ad andare in pezzi ad ogni fatale attimo di angoscia.
Il titolo evoca l’ambiente familiare del protagonista Biagio, precoce orfano di madre cresciuto con il padre Bruno, macellaio ombroso e brusco, incapace di affetto ma a suo modo legato a quell’irrisolto bambino che vorrebbe educare a un’arcaica virilità fondata su violenza e sopraffazione. Un romanzo diverso dai precedenti dello scrittore crotonese, più duro e quasi senza via d’uscita, accomunato però agli altri dall’urgenza di libertà e bellezza fuori dalle miserie di un’umanità ottusamente primitiva. C’è, come in “Amodio”, “Fondo Gesù” e “Ora che sono nato”, un fortissimo genius loci, ma questa volta Fiorino omette i riferimenti geografici (le sue storie hanno sempre citazioni precise di Crotone e la Calabria) per ambientare la vicenda negli anni Settanta e nell’entroterra di un Sud immaginario ma di suggestioni più che mai reali.
Bagnamurata, Calumonte, Scalupace sono nomi da hashtag, hanno una musicalità da luoghi di vacanza da influencer. Invece sono zone morte dove l’esistenza è un’inesorabile agonia. Biagio, nato in un borgo distrutto e ricostruito, quando il vento è forte respira la polvere del paese fantasma, che per tutti è l’alito dei morti della frana. Cresce con l’amara certezza di non essere amato dal padre, di non valere nulla ed essere tarato come certifica la diagnosi che gli ha attribuito un lieve ritardo mentale trasformando in malattia il sentore di qualcos’altro, che al padre faceva troppa paura. Bruno è peraltro ancora più solo e incompreso del figlio, tanto da far perdere le tracce di sé in un giorno insolito, l’unico in cui aveva riso insieme al ragazzo. Nella mente di Biagio l’odore delle carcasse sanguinolente delle bestie e il ronzio della cella frigorifera rimarranno sfondo opprimente nel ricordo di quel padre autoritario e debole, il quale anche in assenza a lungo continua a impedirgli la coscienza di un episodio infantile rimosso, che svelerà la causa dell’endemica sofferenza del ragazzo.
Attorno a loro una comunità di personaggi evocativi di un Sud immoto e fatiscente: il “vizioso” Vittorio adescatore di ragazzini, la tenera e disperata Sara, l’appassionato artista Alceo, la guaritrice Lia che sfascina i paesani dal malocchio. Quasi tutti hanno rinunciato ai propri sogni, ma forse non è un fallimento perché quelli non erano desideri veri ma oppiacei bisogni di un infelice nido di sicurezza.
“Macello” è una storia che non lascia scampo, più dei precedenti romanzi dell’autore – dove non è che non abbondassero i drammi, ma lì la pressione del dolore allentava nel germe di proiezioni benefiche, da immaginare come simbolica possibilità di un (pur anticonvenzionale) lieto fine. Fiorino sembra avvertire la maturità dei suoi 37 anni, è disincantato e meno idealista: sui social ha raccontato di una genesi tormentata di questo libro, iniziato nel 2016 e portato in giro tra Milano, Atene e Roma per finire in un angolo ritirato di Calabria dove durante giorni un po’ bohemien di scrittura immersiva e vecchio stile, si è finalmente irradiata “la luce fuori dal tunnel”. Il paesaggio di questa narrazione, si diceva, è una prigione ostile, ma esiste l’orizzonte salvifico del mare. Il mare che suscita nostalgia pure a chi non lo conosce – ma la mancanza è una cosa puerile e inutile, a cui non dare credito. Non è un caso se Biagio, che da bambino su una collina spiava da lontano quell’incredibile massa liquida di blu ignorandone l’esperienza, vedrà il mare da adulto e a battezzarlo sarà Alceo. La storia prosegue con un balzo temporale in avanti che toglie ogni aspettativa di redenzione.
Biagio capisce che dietro il suo perenne istinto di nascondersi c’è una bruciante voglia di essere scoperto, perché solo così lui davvero esisterebbe. Ed è questo l’estremo, distopico “happy ending” del romanzo: capire chi siamo e continuare a vivere, placando quello stato d’allarme di chi si sente gettato nel mondo come un corpo insensato. Non sempre poi, dopo questa scoperta, riusciremo ad amarci e colmare il terribile vuoto del disamore altrui. Ma quella sarebbe la felicità, miracolo che di rado e brevemente accade, persino nei romanzi.