C’è l’illusione che ci si possa liberare dai dolori cambiando casa, salvo poi, incappando nell’ultimo romanzo di Massimo Cuomo, ricordare che in ogni caso casa è dove fa male.
Non era necessaria la pandemia, eppure è alla luce delle sue conseguenze che sappiamo riconoscere qualche ruga in più guardandoci allo specchio. Non importa l’età, importa aver sperimentato la casa come condanna. Nel condominio alla periferia di Mestre raccontato da Cuomo “i luoghi sussurrano fatti avvenuti che nessuno sa ascoltare”, e infatti vengono subiti molto più di quanto non vengono agiti.
Le vicende degli abitanti del palazzo di questa periferia fanno rabbrividire
Le sette case del palazzo a tre piani che possiamo immaginare mediocre anche nell’estetica, non si affermano come fatti fisici; si tratta piuttosto di incubatori di colpe, vizi e nevrosi, dove la planimetria non importa, importa ciò che le sfugge, contaminando i pianerottoli, gli usci, infestando ogni angolo, ogni stanza, anche la più remota e privata, come la colonia di topi che nel condominio si riproduce.
Dalla nostra condizione attuale di abitatori di casa senza scampo, le vicende degli abitanti del palazzo di questa periferia fanno rabbrividire più di quanto non riescano a far amaramente ridere. Se pure loro, a differenza nostra, dal condominio escono per lavorare, pare che dal mondo fuori non sappiano portare nulla di fresco, di nuovo e magari anche pulito, come noi ci auguriamo di poter fare presto. Tornano invece a casa per sfogarsi e dimenarsi, dimenticando il pudore che richiede l’esterno. E mentre si dimenano, dalla terra pare alzarsi quella canzone amara di Celentano — I want to know (parte I) — che con la sua chitarra tristemente cadenzata invade la tromba delle scale, salendo gli scalini uno ad uno, insinuandosi nelle case di ognuna di queste famiglie dolenti per chiedere loro perché la gente non dice niente/ ai mister Hyde, ai dottor Jekyll/ i costruttori di questi orrori/ che senza un volto fanno le case/ dove la carie germoglia già.