Vorrei condividere la mia esperienza nella lettura del romanzo Tre (Shalosh) dell’autore di thriller Dror Mishani, pubblicato nel 2018 e tradotto da Alessandra Shomroni (Edizioni E/O, 2020). Ho letto la prima parte che racconta la storia di una relazione poco appassionata fra Orna Azran, una quasi quarantenne divorziata di origine libica che insegna la lingua ebraica al liceo, con Ghil Hamtzani, un avvocato dell’élite ashkenazita che racconta di essere divorziato (il cognome Hamtzani è naturalmente l’ebraicizzazione di un cognome ashkenazita). Il realismo dettagliato al limite dello squallido mi ha profondamente annoiato ma arrivando alla fine della prima parte (il romanzo è suddiviso in tre parti) sono rimasto colpito dal modo in cui l’autore sia riuscito a mettere brutalmente i suoi lettori davanti ad un fatto compiuto.
Non vorrei entrare nei particolari di cosa si tratti per non rovinare l’effetto sorpresa di questa scrittura deliberatamente noiosa che tutto a un tratto cambia ritmo, trasformandosi in un thriller affascinante.
Preso dal giuoco di questa scrittura con un effetto “doppio fondo”, ho letto le due ultime parti d’un fiato. La seconda parte è legata alla prima attraverso il protagonista Ghil, centrale nella prima parte, apparentemente meno centrale nella seconda ma ben più importante di quanto sembra. La terza parte, invece, presenta la particolarità di essere scritta al futuro e non al passato come le due precedenti (a parte i dialoghi che naturalmente sono riprodotti al presente). Questo uso del futuro per raccontare degli eventi avvenuti nel passato fa pensare al romanzo di Georges Perec Les Choses. Une histoire des années soixante (tradotto come Le cose, una storia degli anni sessanta), dove tutta l’azione è scritta al condizionale presente. Più specificamente, l’uso del futuro in Tre fa pensare al valore originale del tempo futuro (imperfettivo in ebraico biblico) che preceduto dal cosiddetto waw conversivo diventa il tempo per eccellenza del racconto di eventi passati.
Nella lingua di Mishani che è l’ebraico moderno non c’è nessuno waw conversivo. Eppure, sembra che l’autore avesse avuto in mente che il futuro ebraico non è necessariamente un futuro e che in certe condizioni possa ritrovare il valore modale o aspettuale che aveva in ebraico biblico.
Non voglio deflorare l’effetto sorpresa di Tre, un romanzo intimista che si rivela brutalmente essere un thriller. Dirò semplicemente che bisogna avere un talento eccezionale per capire e far capire al lettore l’interiorità mentale di Orna Azran, una donna tormentata e un po’ nebbiosa che vive nella città dormitorio di Holon nella periferia di Tel-Aviv (del resto, Holon è anche la città natale dell’autore).
Quando, nel secondo racconto, descrive le vicende di Emilia Nodievs, una badante lettone di quarantasei anni, è meno capace di entrare nella sua intimità, ma questa difficoltà a fare con Emilia ciò che è riuscito a fare con Orna Azran è semplicemente dovuta al fatto che questa lettone è profondamente estranea alla realtà israeliana. L’opacità di questa protagonista è un dato imprescindibile che Mishani è riuscito a comunicare al lettore. Per quanto riguarda la terza donna, protagonista principale della terza e ultima parte del romanzo, non ne posso parlare perché è la chiave che permetterà di capire chi è veramente Ghil Hamtzani, un essere apparentemente banale in cui si nasconde una personalità altroché inquietante.
Questo romanzo è rivelatore dell’essenza profonda di un Paese, a prima vista simile a tanti altri Paesi occidentali, che dissimula però delle ferite profonde: il passato della Shoah che continua a perturbare la memoria di una grande parte della popolazione israeliana; i traumatismi delle guerre e degli attentati; la cattiva coscienza dovuta all’occupazione della Cisgiordania da 53 anni e tanti altri problemi che non sono necessariamente palesi ma che costituiscono un sostrato destabilizzante al di là della facciata positiva di una Start up nation.