Recentemente mi sono trovata a lavorare su un fumetto di resistenza queer, i cui protagonisti si trovavano spesso a interrogarsi sulle frapposizioni di caratteri identitari e il modo in cui questi difficilmente vengano accettati in una società cieca di fronte alla multidimensionalità di una persona. La vita di Nina Bouraoui si può in fondo inserire in questa scia di figure che mi sono state vicine e che Rosi Braidotti definirebbe soggetti nomadi (“La caratteristica del soggetto nomade è il suo essere post-identitario: il nomadismo è un processo attraverso il quale tracciamo molteplici trasformazioni e molteplici modi di appartenenza, ognuno dipendente dal posto in cui ci troviamo e dal modo in cui cresciamo”).
Algerina di nascita, francese di adozione, Bouraoui lascia l’Algeria a 14 anni nel 1981 “prima del decennio nero”. Vive l’essere migrante, l’avere radici che si allungano tra due continenti, e un trasferimento a Parigi coincidente con una nuova scoperta di sé, della propria sessualità, dell’essere omosessuale.
“Mi interrogo spesso sulla persona che avrei potuto essere se fossi rimasta in Algeria, su chi sarei se accettassi di tornarci. Quando dico “la persona”, penso alla mia identità amorosa”.
Cerco nel mio passato prove della mia omosessualità, qualche postumo, la mia infanzia è così, orientata in questo modo, simile a un astro o al versante di una montagna”.
In Tutti gli uomini aspirano per natura al sapere – titolo ripreso dalla Metafisica di Aristotele e tradotto in Italia da Silvia Turato per edizioni e/o – l’autrice si muove sul labile confine che separa autofiction e memoir. Nina Bouraoui ricostruisce infatti per tasselli la sua identità, dissezionata, perennemente in conflitto nel trovare un equilibrio tra passato e presente, in un movimento continuo che si concretizza in brevi capitoli intitolati Ricordare e Divenire. Lo scopo è quello di ricomporre uno spaccato di vita fatto di memorie lasciate alle spalle, allucinazioni che ritornano, lotte intestine e invidia per chi riesce a vivere in modo più libero dell’autrice, perennemente scissa tra la sé algerina e quella francese, ma anche tra gli amori e le difficoltà a cui la costringe l’omosessualità.
“Soffro della mia stessa omofobia. […]
Sono gelosa della loro libertà. Io resto rinchiusa nella mia paura. […]
Solo la scrittura è innocente. La pratico con grande libertà: senza orari, senza obblighi, sopraggiunge in modo brusco, secco, invasivo, e scompare non appena ritrovo la notte”.
Nel Ricordare, la dimensione è quella della famiglia, della madre, di un albero genealogico già segnato da spostamenti e colonizzazioni. Di un’Algeria che, complice la distanza temporale, resta impressa nella mente soprattutto per richiami sensoriali: i boschi, le margherite selvatiche, il vento, il succo di limone. Si sceglie di ricordare la terra lasciata soprattutto nella sua poesia, “l’ordine sublime della natura”. Le ferite della Storia restano sullo sfondo, lampi che la protagonista stessa non si sente legittimata a raccontare in quanto figlia di madre francese, e quindi per metà di una Nazione colpevole.
Il Divenire invece è rue de Notre-Dame-des-Champs, la solitudine, la crescita. I vicoli di Parigi e poi il Kat, locale di donne lesbiche in cui entra mostrando il documento per poi diventare cliente abituale. È il tempo di una vita scissa tra il prima e l’adesso, ma anche tra il giorno e la notte, tra le maschere da indossare e la ricerca viscerale di corpi e amore.
Nonostante i mille frammenti che si alternano con ritmo differente – non sempre un Divenire dopo un Ricordare, quanto un lasciarsi andare al bisogno di abitare di volta in volta di più il passato o il presente – il romanzo in un moto circolare si compie nel suo inizio, tra le miriadi di figure che incrociamo giornalmente. Sconosciuti, a volte “atomi magnetici”, altre “specchi”.
“Mi domando, fra questa miriade di persone, chi si è appena innamorato, chi è appena stato lasciato, chi se n’è andato senza una parola, chi è felice, triste, chi ha paura o procede sicuro, chi aspetta un futuro più radioso”.
Se in un’altra pubblicazione di edizioni e/o di taglio largamente autobiografica come Ogni volta che ti picchio di Meena Kandesamy, la scrittura era l’unico mezzo per riprendere le redini di una vita e la sua narrazione, rispetto alla visione alterata e imposta degli altri; qui l’atto di scrivere è ancora una volta un atto funzionale alla vita stessa. Non per riaffermarne una versione rispetto a un’altra, ma per contenerle tutte nelle loro molteplicità. È qui che il Divenire si riempie di senso, che torna il già citato nomadismo bradottiano: in un romanzo fatto di frontiere e distacchi, è il soggetto stesso che diviene rizomatico, non-unitario, che trascende i confini dell’Io ed entra nel gioco di reciproche contaminazioni e influenze con multipli altri. Si legge, d’altronde, sulla quarta: “Mi impadronisco degli Altri, lasciando la loro storia diffondersi nella mia, come la corrente d’acqua dolce si diffonde nel mare”.