Assunta ha dodici anni e, a differenza della sua migliore amica Filomena, non è ancora diventata “signorina”, ma finge, anticipando con del sugo di pomodoro le sue prime mestruazioni, pur di venire subito a conoscenza – ròsa dalla curiosità – del segreto delle donne di Tettiano, che abitano sotto la collina di Tettagna, vicino Napoli. Inizialmente le parole di Filomena sembrano oscure, Assunta – come d’altra parte la sua stessa amica che le ripete come una cantilena – fatica a comprenderle. Solo col tempo le cose si fanno più chiare: le donne di Tettiano hanno un potere speciale; l’uomo che le vede a seno nudo resta legato a loro per sempre, resta in loro balìa fino alla morte; se cade loro dal cuore, egli muore di “morte pazza”; se le tradisce, rende sterile il ventre della donna con la quale le ha tradite. C’è un solo rimedio a tutto questo: le erbe che Ziella raccoglie sulla collina di Tettagna e che poi trasforma in rimedi venduti nella sua erboristeria; i loro principi attivi sono in grado, in maniera specifica, di risolvere i problemi di coppia, o meglio le difficoltà che le donne devono imparare a superare (gelosia, corna, avidità…) per non farsi cadere dal cuore, e dunque uccidere, il proprio marito. Assunta ha perso i genitori da piccola, e Ziella, coi suoi modi severi e proibitivi – le ha negato persino le giostre –, l’ha cresciuta come una figlia… ma la ragazza, per sé, sogna un’altra vita, un altro mondo in cui evadere…
Patrizia De Luca, un’architetta ed esperta ambientale napoletana, è al suo primo romanzo. Con una prosa lineare e scorrevole, riporta in auge la potenza della parola che, femmina, incanta da subito nella sua nudità – senza artifici e travestimenti – quale forza ancestrale e imperitura. Di qui anche l’uso – talvolta – del dialetto, che contribuisce alla veracità della storia. Quella di Tettagna è una sorta di favola nera in cui le eroine sono le donne e gli uomini le loro piccole pedine. Eppure, a una lettura più attenta, nessuna delle figure femminili tettianesi appare appagata e serena: tutte ricorrono ai rimedi di Ziella, e ognuna delle protagoniste stesse è sentimentalmente infelice. Quel loro potere sembrerebbe più una condanna, quasi un sacrificio, che un dono. E lo si evince da subito: dall’io narrante che fa capire che sta raccontando ormai da morta; così, la storia con Tommaso (e ancor prima con Pasquale), fin dall’inizio, è già vissuta dal lettore con l’amara coscienza della sua fine. L’epilogo stesso del romanzo è la prova della fragilità delle eroine di Tettagna. Sono loro, certo, a tessere le fila: a fare e disfare gli amori (e i mariti), a provare a rattopparli. Ma, troppo spesso, la felicità anche per loro ha la durata d’un lampo, cui poi segue il fulmine del loro sacrificio, che sia nel corpo o nell’anima. Le tettianesi sono registe del loro film senza lieto fine. Non c’è una ricetta davvero salvifica (rinunciare all’amore o viverlo?). Forse solo l’evasione nel sogno, nella fantasia: come Assunta che fissava, stesa sul letto, quell’angolo di soffitto su cui proiettava il suo film d’amore strozzato o che si ritrovava (e ritrovava anche il “suo” Tommaso) nel piacere della lettura, scoperta troppo tardi… quel che resta è, allora, la narrazione, la parola come reale elemento femminile, incantatore e ammaliatore, per la donna (e l’uomo) di Tettagna, e non solo…