Non è vero che nessun uomo è un’isola. A patto che ci si intenda su che cosa sia un’isola: un organismo, un essere vivente, un universo. Allora sì che ogni uomo è un’isola e, anche, ogni isola è un uomo. Con un destino, una vita, una morte, forse una rinascita. Tocca leggere Wu Ming-yi per convincersene. Figlio di un’isola, Taiwan, ha scritto un libro che, profetico al momento della sua uscita in patria dieci anni fa, appare — ora che arriva in Italia nella limpida traduzione di Silvia Pozzi — ben calato nello spirito dei tempi. L’apprensione per le sorti del pianete, l’occhio aperto sulle ferite inferte dai mutamenti climatici, sono la sostanza prima di Montagne e nuvole negli occhi.
Con un montaggio mosso ma non fine a s stesso, Wu fa incontrare a metà romanzo i protagonisti dei due flussi narrativi principali, a cui ne collega altri. A Taiwan, Alice è una docente universitaria e scrittrice rimasta sola dopo la scomparsa in montagna del marito Jakobsen, un danese avventuroso e irrequieto, e del figlioletto Toto; nella casa sull’oceano costruita dal compagno, cova propositi suicidi, convinta che comunque «finiamo tutti in un sottoscala ingombro di ciarpame»; anzi, «Io un certo senso Alice è già morta, suicidarsi non è poi così importante». In una sperduta isoletta del Pacifico, Wayo-wayo, il giovane Atrei è uno degli indigeni che vivono in una sorta di stato di natura che non contempla la scrittura ma invece si irradia in una ricca mitologia e in una passione per le narrazioni, tutte imperniate sul mare, sulla pesca e sulla devozione per Kapanga, l’essere supremo.
L’autore comincia a tirare i fili della storia quando Atrei prende il mare da solo e si ritrova naufrago in un’immensa isola di rifiuti alla deriva. Sopravvive, ricavando il necessario dagli oggetti che ci trova. Una tempesta spaventosa, una delle molte che bersagliano Taiwan provocando disastri e morte, porterà il colossale banco di spazzatura a schiantarsi sulla costa, dove Atrei si mette in salvo nascondendosi nel bosco. Qui avverrà l’incontro con Alice. Lui «sembra uscito da un libro o venuto da un altro mondo. Ha un odore antico e fresco allo stesso tempo»: niente romance, però. Alice e il ragazzo imparano a capirsi, poi addirittura a parlarsi. Due mondi si accostano: il muto dolore della donna e la vitalità così piena di saggezza e di stupore di Atrei, per il quale «le parole si annusano, si toccano, si immaginano, si inseguono con l’istinto, come quando si dà la caccia a un grosso pesce». Alice rinasce con Atrei e con lui andrà alla ricerca del piccolo Toto, inconsapevole animista a sua volta, se «diceva delle frasi agli insetti che parevano versi di poesie».
La storia di tre isole, dunque. Wayo-wayo, l’atollo del buon selvaggio Atrei, perduta per sempre se non nel suo desiderio per l’amata che forse ha concepito suo figlio. La massa di scarti che scempia l’oceano e certifica la violenza perpetrata dall’uomo ai danni della natura.
Infine Taiwan, che il romanzo di Wu mostra nella spoliazione sistematica delle sue risorse, nell’aggressione alle coste e all’entroterra montano, con perforazioni violente, inutili strade e un mare ridotto a «un vecchio sdentato con l’infermità mentale». A dare voce ai valori ancestrali deturpati sono gli amici e i conoscenti indigeni di Alice. Non discendenti degli han, i cinesi della terra-ferma, ma «pangcah, bunun, sazikaya e truku», popoli minoritari, emarginati, che tentano di preservare ciò che resta di un’antica comunione con la natura: «Gli han», gridano, «non ci possono vedere, cafoni ci chiamano!». Eppure sono loro, gli autoctoni, a sapere che «se l’oceano è malato, si ammala anche la montagna». E l’oceano, intanto, divora anche la casa di Alice.
Svolta dopo svolta, accelerazione dopo accelerazione, Wu immerge la vicenda in una tensione onirica che permette anche ai dettagli meno plausibili di collimare, accompagnando il lettore all’incontro cruciale con l’«uomo con gli occhi composti», come quelli degli insetti. Una figura enigmatica che si manifesta a Jakobsen e parla ai lettore. Vede dove noi non vediamo, abbraccia i destini e dice: «Contemplo ma non intervengo, questo è il senso della mia esistenza». Contemplare, non intervenire: cioè quello che l’uomo — l’uomo storico che noi siamo —non ha avuto l’umiltà di fare nei confronti del mondo. La via che avremmo dovuto seguire. Invece la natura si vendica. Non resta dunque che osservare Atrei rimettersi in mare.
È un (ir)realismo magico, quello di Wu. Il romanzo è anche un manifesto ecologista, tanto più persuasivo quanto più espresso nelle immagini, nei dettagli e nella progressione della trama, meno efficace invece quando cede didascalicamente alle enunciazioni esplicite di figure secondarie, come il pescatore norvegese. Narrare è meglio che spiegare.
Il senso dell’insularità che abita Montagne e nuvole negli occhi pare suggerire un’ulteriore chiave di lettura. Riguarda Taiwan, isola che Pechino rivendica da quando, nel 1949, i nazionalisti di Chiang Kai-shek, battuti dai comunisti di Mao Zedong, vi installarono la loro «Repubblica di Cina». Al di là della retorica secondo la quale «la Cina è una» e delle minacce di Pechino all’autonomia dell’isola, Taiwan è ormai una democrazia ben funzionante, con una società civile dall’identità distinta. Proprio la valorizzazione delle culture indigene, per quanto tardiva e parziale, contribuisce alla specificità taiwanese. Forse, allora, non è troppo audace vedere nell’erosione delle coste dell’isola e nei fortunali narrati dal romanzo di Wu Ming-yi una metafora della pressione che la Cina esercita su Taiwan.