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Alla fine, se l’è rifatto il seno?

Autore: Linda Terziroli
Testata: L'intellettuale dissidente
Data: 20 marzo 2021
URL: https://www.lintellettualedissidente.it/pangea/seni-uova-libro/

Stralcio di conversazione al bar (la zona è quella gialla), siamo sedute al tavolino. “Alla fine se l’è rifatto o no il seno Makiko?” domando. Io e la mia amica F. discutiamo animatamente di Seni e uova, dubbiose su quanto e perché ci sia piaciuto il bestseller di Mieko Kawakami (traduzione dal giapponese di Gianluca Coci), in Italia, da ottobre scorso, grazie alle edizioni e/o. Mieko Kawakami, nata a Osaka nel 1976, con Seni e uova ha vinto il Premio Akutagawa e ha ottenuto elogi dalla scrittrice Yoko Ogawa. Sotto il titolo, in copertina, una citazione dell’amato Haruki Murakami: “mi ha tolto il fiato”.

Io e la mia amica di questo siamo certe: non ce l’ha tolto il fiato. Eppure. Entrambe l’abbiamo letto tutto (un discreto sforzo, data l’ampiezza di oltre 600 pagine). Tutto sommato, sono dell’idea che il romanzo sia da leggere. No, forse Makiko il seno non se l’è rifatto, ma sua sorella Natsu, una scrittrice in crisi, è riuscita nell’impresa di dare alla luce un bambino grazie all’inseminazione artificiale.

Makiko è ossessionata dal proprio seno (dalle dimensioni al colore dei capezzoli) che è cambiato dopo la nascita della figlia Midoriko (e l’allattamento). Perciò va alla ricerca di una clinica che le possa donare protesi al seno a prezzi accessibili. Nel frattempo, la figlia si rifiuta ostinatamente di parlarle, se non per iscritto, attraverso un taccuino. Di tanto in tanto, affiorano anche le annotazioni dal diario di Midoriko. Ne appunto una. “È pazza, ha in mente di rifarsi il seno e spera che torni com’era prima che io nascessi. Ma allora perché mi ha messa al mondo? Poteva risparmiarsi la fatica se poi voleva tornare quella di prima! La sua vita sarebbe stata migliore se non mi avesse avuta. Se non fosse nato mai nessuno, al mondo non esisterebbero problemi. Niente gioia, niente tristezza, niente di niente fin dall’inizio. Possedere ovuli e spermatozoi è la nostra più grande disgrazia, ma almeno si dovrebbe stare attenti a non farli mai incontrare!”.

Ecco il punto. Il pregio del romanzo sta proprio nel chiamare in causa, come se niente fosse e senza troppe pretese, questioni esistenziali. Con un focus sul tormento (e il destino) delle donne. Sul corpo delle donne visto e vissuto dalle donne. Che se ne parli (anche troppo, eh!) in un romanzo in fondo è liberatorio. “Quante altre volte il mio organismo dovrà affrontare il flusso mestruale? Quante volte mi sono venute finora le mestruazioni? Quindi anche questo mese non sei incinta, eh? Quest’ultima frase mi si è materializzata davanti come il baloon di un manga, e sono rimasta lì a fissarla immobile, quella nuvoletta bianca con i caratteri neri… Non sei incinta, eh? No, no, non sono incinta. E non credo che lo sarò neanche il mese prossimo, quello dopo e tutti quelli successivi… Parlavo rivolgendomi al baloon sospeso sopra la mia testa, un po’ impacciata, ma facendo del mio meglio per suonare convinta e serena”.

Insomma, essere donne è certo un destino che ha a che fare con i seni e le uova del titolo. “Ora, facciamo che il futuro bebè sia una femmina: a un certo punto, nelle sue ovaie (attenzione: non è ancora nata e possiede già le ovaie. Da brividi!) ci sono ben sette milioni di ovociti primari. Non so bene cosa siano, ma credo che poi in qualche modo si trasformino in ovuli. In ogni caso, quello è il momento in cui ce ne sono di più”. Ora, se una donna non ha un compagno, ma desidera una gravidanza, che cosa succede in Giappone? E, poi (fatto, questo, di importanza capitale) cosa succede quando un bambino scopre di essere frutto di un’inseminazione artificiale? “In Giappone, invece, tutto resta avvolto in un alone di mistero e incertezza. È quasi come se quindicimila o ventimila individui venuti al mondo grazie alla fecondazione assistita non esistessero. In altre parole, non ci sono leggi specifiche in grado di riconoscere e tutelare il loro status, e di conseguenza si tratta di cifre solo ufficiose. Inoltre, spesso i genitori tendono a nascondere la verità e il più delle volte i figli finiscono per scoprire tutto solo per caso, da un giorno all’altro”. Insomma, una verità scomoda che si apprende spesso in punto di morte di un genitore. “La maggior parte dei nati grazie alla fecondazione assistita conduce una vita di sofferenza da cui non è affatto facile liberarsi”. Il problema resta nell’incertezza del donatore: “Forse gran parte del problema risiedeva nel fatto di non conoscere l’identità del donatore. Ma in fondo che senso aveva saperlo? Che cosa cambiava? Tutte le coppie che hanno bambini, tutte le donne e gli uomini che fanno l’amore per procreare possono dire di conoscersi bene a vicenda? Non credo proprio, perché in fin dei conti si resta almeno in parte estranei”.

Il libro possiede anche delle sparute pagine sentimentali verso la fine. Saltatele a piè pari. Natsuko e Aizawa, un medico tormentato dalla scoperta di non essere figlio di suo padre, ma di uno sconosciuto donatore di seme, salgono insieme su una ruota panoramica. Sono pagine melense e inutili in cui l’autrice vuole a tutti i costi strappare un happy ending a un romanzo che fa della disperazione la sua forza. È un libro che racconta anche la povertà, il suo disagio. Basti rivedere l’incipit: “Quando voglio sapere se una persona è nata povera, non c’è niente di meglio che chiederle quante finestre c’erano nella casa in cui è cresciuta”. Verissimo. Le ultimissime pagine, invece, affrontano il momento del parto naturale (Natsuko, dopo cinque tentativi, aspetta un figlio da Aizawa, concepito artificialmente) e ne raccontano tutto il tormento irrazionale. “Dovevo urlare, ne avevo bisogno. Perché in quel momento stavo patendo un dolore che andava oltre l’umana sopportazione, un dolore che superava di gran lunga ogni forma di razionalità. Era puro delirio. Forse ero oltre il dolore stesso, forse stavo provando qualcosa di diverso e trascendentale. Era il mio corpo che provava dolore? O era il mondo intero a soffrire e a provarlo? Dove avevo male? Che cosa mi stava succedendo?”