Chiara Mezzalama, autrice fuori dal margine e dal coro, nel suo nuovo romanzo ipotizza un disastro ambientale che costringe i personaggi a ripensare se stessi trovando nuove ragioni di vita (e di sopravvivenza)
Nei libri di Chiara Mezzalama è rilevante il rapporto con i luoghi, ed è significativo quanto questi acquistino importanza nel corso delle sue narrazioni. I luoghi sono confini da conoscere, aree dentro cui muoversi, limiti da superare, dunque soglie da cui ripartire. In effetti la potenza che i luoghi mettono nel provare a restringere e circoscrivere i destini umani funziona come una irresistibile provocazione, un’occasione imperdibile per rivedere la propria idea di sé e del mondo, e ripartire da zero mettendo tutto in discussione. Il conflitto che genera il déclic è tutto nelle catene, dentro e fuori di noi, e nella libertà irreprimibile e pulsante, nel cuore e nella mente, che conduce alla liberazione. Il fatto che tutto questo passi attraverso dei disastri, personali sociali ambientali politici, pare essere uno scotto inevitabile: è la storia di tutti noi, dopotutto, con gradi variabili di gravità. Che ci si può fare? Bisogna per forza attraversare il guado. Bisogna sormontare gli ostacoli, in qualunque modo.
Uscirne genera spostamento, viaggio, e consapevolezza del corpo. Non solo del proprio. E genera anche tutta un’altra visione: del mondo e dei rapporti dentro e col mondo.
Questi temi attraversano tutto ciò che Chiara Mezzalama ha scritto finora. In Avrò cura di te, romanzo edito da e/o nel 2009, Yasmina, in fuga dal Marocco e da un marito anziano a cui è andata sposa per forza, e Bianca, donna sola e incerta, quasi fobica nella sua marginalità e difficoltà di avere veri legami, si incontrano fortunosamente. Ne Il Giardino Persiano, (edizioni e/o 2015), che deve molto a un dato autobiografico: l’autrice ha vissuto nell’ambasciata italiana a Teheran per la carriera diplomatica di suo padre, racconta la vita adolescente in una prigione dorata, una magnifica residenza circondata da un parco di otto ettari, e fuori l’Iran immerso nella tirannia degli Ayatollah – un libro censurato in Iran (è stato tradotto in persiano) da cui Chiara Mezzalama ha poi tratto una versione per l’infanzia, Le jardin du dedans-dehors, una favola illustrata da tavole mirabili. C’è poi Voglio essere Charlie, diario minimo legato alla condizione dell’autrice di essere scrittrice italiana a Parigi nel periodo degli attentati a Charlie Hebdo e al Bataclan (Edizioni Estemporanee).
E ora questo Dopo la pioggia (edizioni e/o, pp. 224, €16,50),in sorprendente sintonia con quest’epoca di pandemia planetaria, benché al romanzo, uscito il 17 febbraio scorso e subito candidato al Premio Strega 2021, Chiara Mezzalama abbia lavorato tre anni fa, con l’idea di mostrare quanto piccoli siamo noi che abbiamo la pretesa di dominare il mondo: noi che invece siamo solo insetti nella bufera quando questa infuria puntuale, e siamo stati proprio noi, genere umano, a innescarla.
Il romanzo riesce nell’impresa non piccola di modulare le misure scalari che danno dimensione ai nostri guai, alle cui cause non siamo estranei, in modo diretto o indiretto. E nello stesso tempo ha il potere di raffigurare il cambiamento con lo spostamento rocambolesco e il viaggio ineludibile, con l’impossibilità, cioè, per i suoi attori, di restare fermi sul posto, pena l’essere travolti e perdere ogni chance di farcela. Viene da pensare in certi momenti alle traversie di Lemuel Gulliver in cui viaggio e dimensioni, anzi variazioni e ribaltamento nel rapporto tra le dimensioni di soggetti diversi, portano a una frequente rimodulazione scalare. Swift però, il raffinato scrittore augusteo, aveva altri livelli di acidità che toccarono l’apice nella spiazzante modesta proposta, noto pamphlet su fame e infanzia – invece qui non c’è ironia tagliente o sarcasmo. E non c’è neanche l’atmosfera delle distopie dal vero che è dei romanzi di Michel Houellebecq, al cui humor nero e maschio cinismo Mezzalama oppone una gentilezza, che, da un lato, crea un clima avvolgente nella narrazione, e dall’altro si rivela come maggior forza. E questa forza è tutta femminile.
È la forza di Elena, la protagonista, la metà della coppia che il disastro climatico mette in serio pericolo di non potersi ritrovare mai più. Elena ha già trovato in sé la forza di uscire dalla dimensione familiare. Ha già lasciato la casa in città, il marito (Ettore) e i figli, per il Faggio Rosso, la tenuta in campagna dove forse ricongiungersi all’armonia del creato. È molto interessante una sorta di chiasmo strutturale nella storia: Elena, in Umbria, trova appoggio e completamento in una amica di famiglia anziana, Ada, e soprattutto in Guido, uomo meno viziato, di certo più selvatico, più vicino alla Natura, di suo marito Ettore. Il quale a sua volta, in fuga con i loro due figli, Susanna adolescente e Giovanni di 9 anni, da Roma travolta dalle piogge torrenziali e dall’esondazione inarrestabile del Tevere, nel tentativo di riunirsi ad Elena si imbatte in Iroko, figura prodigiosa, transfuga pochi anni prima col marito dal Giappone e dal disastro nucleare di Fukushima. E prodigiosa è la corrispondenza ideale, soprattutto a distanza, che dentro di noi si crea tra le due, Elena da una parte e Iroko dall’altra. Poi questa onda femminile si amplia e va a rifugiarsi in un convento di suore benedettine da tempo dedite alla permacultura, crasi di permanent agriculture, «parola (portmanteau, dicono i francesi) che abbiamo coniato per denominare un sistema integrato e in evoluzione costituito da piante perenni o che si autoperpetuano e da specie animali utili all’uomo, […] in sostanza un ecosistema agricolo completo». (dicono Bill Mollison e David Holmgreen in Permaculture one, a perennial agricultural system for human settlements. Transworld Publishers, 1st edition – Australia 1978).
Un altro dato interessante del romanzo è l’attenzione all’intera gamma dei sensi che sono il nostro primo vaglio per la conoscenza del mondo – che non ci sta attorno, ma ci contiene, cioè siamo noi a stare dentro il mondo e a farne parte e non il mondo ad essere sfondo e accessorio alle nostre vite.
Il senso che più è sollecitato, nella quasi cecità determinata dall’acqua abbondante e dalla nebbia che avvolge anche noi lettori con i protagonisti scombussolati nella storia, è l’olfatto. Ma anche la vista, così colpita da ottundimento, a un certo punto riesce a rivedere il cielo quando spunta un bell’ arcobaleno, e gli attori della storia contemporaneamente da punti diversi puntano i propri occhi su quella visione inattesa, in distante corrispondenza.
Torna in mente quel passaggio di Mrs Dalloway in cui passa in cielo un aereétto rincorso da un banner, e, colpiti anche dal suo scoppiettio, Clarissa e Septimus, loro due che non si conosceranno di persona mai, alzano gli occhi al cielo nello stesso istante entrando in ideale contatto, con reazioni peraltro opposte al fenomeno: Clarissa, di stupore e gioia per quell’immagine di progresso tecnico; Septimus, reduce dalla Grande Guerra e rimasto shell-shocked, di terrore per ciò che per lui è rumore e macchina di morte. Ma torniamo a noi.
Il disastro ambientale è in corso, la pioggia battente e interminabile è tropicale, quasi monsonica. La luce cupa, il quasi buio, la densità liquida del guardare e del vedere, come attraverso un cristallino ispessito, determinata dalla rottura delle cataratte che rovescia torrenti d’acqua e mette tutto a mollo, creano una specie di ambiente insano, ostile agli umani, come in Blade Runner. E abbiamo spesso la sensazione che gli sparuti gruppi di persone che vi brancolano e si cercano somiglino ai sopravvissuti della nota, omonima serie televisiva inglese degli anni Settanta: lì l’ipotesi era una pandemia dovuta, come capita a noi oggi, a un virus incontrollabile, qui la catastrofe è ambientale: identica è la sensazione di spaesamento, di isolamento, di impossibilità a ritrovarsi, di separatezza.
LA PIOGGIA è nel punto centrale della narrazione: i pericoli erano molti, altrettante le insidie.
Per esempio, semplicemente, opporre la saggezza orientale alla prepotenza occidentale. Oppure ridurre la trama del romanzo al ricongiungimento familiare, alla risoluzione dei conflitti di coppia.
Invece, brillantemente, la separazione tra Occidente e Oriente qui è annullata – così come la contaminazione nucleare, sorella al disastro climatico, ha accorciato le distanze anzi ha rivelato che le distanze sono labili e dopotutto fittizie (inesistenti e aeree come la pandemia attuale tenta di dirci). E, ancor più brillantemente, aver risolto più o meno a metà del libro, il (non) piccolo dramma-mistero del ricongiungimento, di padre e figli in fuga dentro il violento maltempo con la madre fuggita prima di loro spinta da esigenze affatto diverse, non solo non è né il vero cuore né la fine del dramma, ma è in realtà il suo vero inizio. Perché ormai l’onda del cambiamento si è avviata ed è inarrestabile – ci si può solo abbandonare ad essa. Si può solo smettere di opporsi, discutere, questionare, e propendere per una forma di accettazione, un’idea di resa, e di affidamento.
L’obiettivo del romanzo è alto, come è alto il magistero che prova a suggerire, almeno a mostrare.
Ogni tragedia è sventata (e qui qualche editor potrebbe dire: ma come?, hai messo in piedi tutta sta macchina, hai messo in fila tutte le trappole, e poi non ne fai scattare una?, le aggiri tutte? Non così l’editor di e/o, che ha giustamente “visto” la letteratura, e non la pura macchina romanzesca da far funzionare come dispositivo meccanico): c’è LA TRAGEDIA, ce n’è una più grande, ed è lenta e inesorabile – e andava ben indicata nella sua vastità e profondità: avvio, combustione, macerie.
Il clima. L’ambiente. La Natura. Corpo vivo e senziente, e non puro sfondo, non pura quinta, inerte, alle magagne umane. Anzi corpo unico, grande organismo che pulsa e respira, di cui noi umani, qui ridimensionati, siamo una delle molte, e infinitesime, funzioni, mentre ce ne stiamo, inconsapevoli, ma non incolpevoli, nella nostra bolla arbitraria di piccoli dèi capricciosi, ottusi a recepire alcunché.
La forza del romanzo sta nel mostrare tutto questo in modo concreto. Il mondo a noi conosciuto è letteralmente spazzato via, il globo terraqueo che calpestiamo con passi pesanti e irresponsabili è un mare di fango, un’immensa geografia di sabbie mobili. Le estati secche e prolungate si rovesciano letteralmente in tempeste monsoniche. Sembra in certi momenti di vedere il buon dottor Aziz farsi a piedi i suoi rischiosi tragitti con rispettosa abnegazione sapendo che tutto quel singolare impegno, quella personale devozione, anche alla Natura, non saranno affatto ripagate, e non ci sarà salvezza. Ma visualizziamo anche l’umidità reale e simbolica che imbibisce il romanzo di Duras, L’amante.
C’era un altro pericolo in questo libro, annidato proprio nel suo cuore, e brillantemente superato con facilità (sorprendente per chi non avesse mai letto Chiara Mezzalama, per chi la legge non inattesa): il rischio era raccontare tutto questo in modo magniloquente, con tirate a tesi reboanti, iperspeciose.
Tutt’altro. Il dettato è semplice, soprattutto è naturale. I ragionamenti sono limpidi, cristallini, e non sono poi frequenti gli a-parte o le intrusioni della voce autoriale nel tessuto del romanzo di finzione. Anzi, tutto è integrato nel tessuto narrativo e non capita mai che il messaggio sgomiti per farsi largo e spostarci dalla sospensione dell’incredulità che ci permette di affidarci e abbandonarci al racconto.
Non ci sono mai astrazioni contorte o notazioni specialistiche a scopo di moral suasion: semmai c’è quella esemplarità, o indicazione per exempla, che è un classico millenario della letteratura. Non c’è – intendo – quella ipertrofia del cantuccio manzoniano, che ho intravisto altrove, che spariglia del tutto il buon ascolto di chi legge tirandolo per il bavero per inscenargli prediche e ammiccamenti.
Non c’è, torno a dire, alcuna macchinosità, ma una naturalezza esemplare, persuasiva senza scopo.
Qui il bilancio finale è tentare una ricognizione a gioco fermo, e valutare se e quanto realmente sia profondamente cambiato, almeno in questo sparuto campione umano di protagonisti e comprimari, il sentimento dell’esistere, tenuto conto che l’unica alternativa possibile al delirio di (onni)potenza è la coscienza femminile, non a caso generatrice, materna, e che echi di essa, come segnale di radicale cambiamento nel genere umano, risuonano indicativamente nella sensibilità del bambino danzatore.