Con il suo romanzo «Dopo la pioggia», pubblicato da Edizioni E/O, Chiara Mezzalama è tra le candidate che concorrono per entrare nella cinquina del Premio Strega 2021. Dall'infanzia in Marocco alla necessità di riconnetterci con la natura per raggiungere la pace interiore, ecco cosa ci ha raccontato
Se Chiara Mezzalama ha scelto di diventare una scrittrice lo deve a Simone de Beauvoir, ad André Gide e a tutti gli autori che sono riusciti a riconnetterla con il mondo negli anni in cui ha smesso di vivere in ambasciata, protetta da mura bianche e circondata da giardini apparentemente sconfinati. Per via del lavoro di diplomatico di suo padre Mezzalama ha, infatti, passato gli anni cruciali dell’adolescenza tra il Marocco e l’Iran prima di fare ritorno nella città che le ha dato i natali: Roma.
«Quando siamo tornati dall’Iran mi sentivo spaesata: fino a quel momento io e mio fratello eravamo chiusi in ambasciata e riconnetterci con il mondo non è stato facile. Non trovavo i codici giusti, mi sentivo da un’altra parte, avevo poche amiche, ma a salvarmi è stata la letteratura» racconta Chiara al telefono proprio da Roma, dove si gode il sole nei pressi di Piramide prima di ritornare a Parigi, città nella quale vive da sei anni.
«A Roma torno abbastanza spesso, circa ogni sei settimane. I miei figli frequentano la scuola in Francia, ma a Roma vive il loro padre, la mia famiglia e le mie amiche» riprende Chiara con voce euforica, profondamente grata non solo per lo spiraglio primaverile che febbraio ha deciso di concederle, ma anche per l’uscita del suo nuovo romanzo, Dopo la pioggia, che rappresenterà Edizioni E/O al Premio Strega 2021 con la speranza che arrivi alla cinquina finale. La storia, che parte dalla crisi del matrimonio di un uomo e una donna, Ettore ed Elena, subisce una sterzata quando si affaccia tra le pagine una catastrofe naturale, una pioggia battente che ingrossa il Tevere e porta marito e moglie, nel frattempo divisi per l’infedeltà di lui, a intraprendere un viaggio rischiosissimo insieme ai propri figli per ricongiungersi. Il paesaggio, quello che dovrebbe rimanere sulla sfondo, entra, così, con prepotenza sulla scena trascinando il lettore in una storia di rinascita e di riscoperta che porterà alla consapevolezza che niente sarà più come prima.
Roma è la protagonista silenziosa di Dopo la pioggia: che rapporto la lega a questa città?
«Ci sono nata e poi, nonostante abbia viaggiato molto, ci ho passato tutta l’adolescenza. Anche per via del lavoro di mio padre, a un certo punto ho sentito il bisogno di sistemarmi e di fermarmi: Roma è la città che mi ha accolto, quella con cui conservo ancora oggi un legame speciale. Sei anni fa, però, ho sentito di voler ripartire da capo: ho scelto Parigi perché, avendo vissuto in Marocco e conoscendo bene il francese, ho pensato che sarebbe stato d’aiuto per trovare un lavoro. La cosa che mi piace di Parigi è che è una città viva. Roma, da qualche anno, sta attraversando, invece, un periodo difficile».
Quindi fa la spola tra Parigi e Roma.
«Mi stare bene essere contemporaneamente in due posti e tra due lingue diverse. Parlare in francese e scrivere in italiano ha accresciuto il mio legame viscerale con l’italiano».
Prima parlava di ripartenza: un’idea cardine del romanzo visto che tutti i protagonisti sono chiamati a ripartire, nel bene e nel male.
«È una ripartenza legata alla catastrofe ambientale, all’idea che la vita è fatta di cicli che portano sempre a un movimento: è tutto una grandissima metamorfosi degli umani, ma anche della natura che li circonda. Abbiamo bisogno di questo: siamo dentro un sistema molto strutturato nel quale sta diventando difficile trovare il benessere: l’idea dei personaggi in viaggio è un modo per sentirli vivi».
A un certo punto scrive: «l’umano è la più piccola parte del cosmo e nemmeno la più interessante». Lo pensa davvero?
«Sì, da troppi anni ci siamo fatti l’idea di essere superiori a tutto. La pandemia ci ha dimostrato che non è vero e che è necessario avere un rapporto con quello che ci circonda, che è imprescindibile».
Visto che nel libro parla di una catastrofe ambientale ma tira in mezzo anche viveri da procacciare e file al supermercato, il libro lo ha scritto durante la pandemia?
«L’ho scritto tre anni fa, ma avevo la percezione che di lì a poco sarebbe successo qualcosa di incombente, che poteva essere una malattia come un terremoto».
Il tema del disastro ambientale e dello scontro generazionale tra i figli che vogliono cambiare il mondo e i genitori che hanno fallito è forse uno dei più interessanti che mette in scena: la sua è davvero «una generazione di falliti e vigliacchi»?
«Sì e no. Ho 48 anni e, per certi versi, la mia generazione è già vittima di quella precedente, visto che niente di quello che ci è stato insegnato si è realizzato. Gli adolescenti di oggi si trovano in un pianeta rovinato, sanno che stiamo andando verso una catastrofe, ma sono anche più liberi e meno strutturati di quanto non eravamo noi alla loro età. Avere una mentalità più aperta potrebbe portarli ad immaginarsi cose più nuove che noi non abbiamo la facoltà di fare. Io voglio crederci: gli adolescenti mi piacciono, sono svegli, intelligenti, attenti all’attualità».
Con i suoi figli ha mai avuto una conversazione sulla responsabilità ecologista come capita nel libro a Susanna e a suo padre Ettore?
«Mia figlia è un’adolescente: la guardo, la osservo e ne rimango affascinata. Prima di diventare scrittrice ho lavorato come psicoterapeuta infantile e mi è capitato molte volte di avere a che fare con loro: mi piacciono anche se certe volte, com’è giusto che sia, ti fanno anche arrabbiare».
Lei che adolescente era?
«Molto isolata, specie appena tornati dall’Iran. Non ne ho un bel ricordo: aggrapparmi alla lettura è stata una salvezza, il vero motivo che mi ha portato a essere una scrittrice. Leggere mi ha aiutato a uscire dal guscio nel quale mi sentivo prigioniera».
A scrivere quando inizia, invece?
«La scrittura seria dopo i vent’anni, anche se da piccola avevo scritto un romanzo di avventura e diverse poesie. Scrivere è sempre stato un modo per esprimermi, anche se tra leggere e scrivere non avrei alcun dubbio».
Cosa sceglierebbe?
«Leggere. Scrivere mi permette di buttare già le cose della mia testa, ma leggere mi permette di visitare la testa di tutti gli altri: questo nutre la scrittura profondamente».
Una cosa che emerge dal romanzo è anche l’importanza del destino: lei ci crede?
«Andando avanti con gli anni ti rendi conto che non governiamo niente e che è tutto casuale. Aver vissuto delle cose personali difficili nell’ultimo periodo ha rafforzato la mia convinzione che la vita è una cosa fragile che non va data mai per scontata. Devi fare del tuo meglio, anche se c’è una parte di te che dice che non sei tu a decidere: è più una postura nei confronti di ciò che ci supera e di cui siamo una piccolissima parte e neanche così necessaria».
La cosa che colpisce è che, con l’arrivo della catastrofe, tutto il caos dei personaggi si acquatta: nella tragedia, ognuno ritrova sé stesso.
«È lo stesso principio della permacultura: la bicicletta per stare in equilibrio deve essere in movimento. C’entra sempre con la metamorfosi, con la coltivazione della terra e della nostra esistenza inquadrata in un’ottica circolare. Il progresso è verticale, ma la vita e la morte no, vanno avanti per cerchi».
A proposito di morte: perché associa la non-vita alla rigogliosità del giardino?
«I giardini sono stati importanti nella mia vita perché ci sono cresciuta: in Iran io e mio fratello ne avevamo a disposizione uno di 8 ettari, sembravamo liberi ma la verità era che eravamo all’interno di uno spazio recluso dove immediatamente fuori c’era la guerra. Il giardino è un posto di pace, di crescita, qualcosa di cui devi prenderti cura e che ti protegge. È un rifugio mentale per me».
Quando scrive che «la libertà è sopravvalutata» si riferisce a questa circoscrizione del giardino e, quindi, dello spazio?
«Mi riferivo al fatto che possiamo essere liberi nel nostro spazio interno, ma avremo sempre a che fare con un limite, con un confine, con un’età, e anche con un corpo che ci delimita. Uno dei problemi degli esseri umani è questo: avere un’infinita libertà mentale che cozza con i limiti della nostra condizione mortale. È questa la contraddizione più difficile da gestire».
Durante la pandemia si è molto parlato di una libertà da riconquistare e da proteggere: la riscopriremo davvero?
«Secondo me sì. L’importante è togliere le cose superflue e riscoprire quelle essenziali, come il rapporto con gli altri, che è quello che più mi manca in questo periodo».
Restando in tema natura, la pioggia che dà il titolo al romanzo che immagine le restituisce?
«Siamo esseri liquidi, l’acqua fa parte di noi. Essendo cresciuta in Marocco, ai bordi del Mediterraneo, posso dire di amare molto la pioggia, il suo rumore, il suo odore. Nel libro diventa battente, persistente e angosciante, ma ci sono anche dei momenti in cui è un sollievo contro la stura. Mi piace, poi, l’idea che venga dal cielo, che faccia parte di una cosa più grande di noi: l’acqua è un elemento associato alla vita, viviamo nella pancia della mamma immersi nell’acqua. Mi piace che nel romanzo un po’ tutti questi elementi naturali e animali, dal Tevere al Faggio Rosso, dalla cagna ferita alle galline, siano personaggi esattamente come gli esseri umani».
Intanto la corrente ha portato Dopo la pioggia a essere proposto per il Premio Strega: come l’ha presa?
«La vivo sportivamente: arrivare in cinquina sarebbe bellissimo, non lo nascondo. Intanto sono molto felice perché è una prova di fiducia da parte del mio editore e perché ho l’impressione che i libri sono qualcosa che rimarrà: è bello parlarne, tifare per qualcuno. È sempre un’occasione per far circolare delle storie e questo non può farci bene».