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Settanta acrilico trenta lana

Autore: Silvana Ferrari
Testata: Women.it
Data: 10 giugno 2011

Ottimamente recensito da critici di fama, paragonato, nella quarta di copertina, ai romanzi di Elena Ferrante, e di Amélie Nothomb, e, da altri recensori, all'Isabella Santacroce degli esordi, il romanzo di Viola Di Grado, ventitreenne di Catania, laureata in lingue orientali a Torino e attualmente a Londra per il proseguimento dei suoi studi e al suo esordio nella narrativa, effettivamente non lascia indifferente chi legge.
Non tanto per la trama, un tema comune e ricorrente, lo sprofondare nel buco nero della depressione e della follia dopo un forte trauma, causato dalla morte o dall'abbandono di una persona cara, ma da altre caratteristiche del romanzo: a partire dalla struttura narrativa, che scorre liscia nascondendo però continuamente trabocchetti temporali e spaziali, dall'uso del linguaggio, metafora di quanto accade nella mente e nel corpo, e dallo stile a volte enfatico, a volte esaltato e a volte ancora eccessivamente ricercato.
Camelia, la protagonista, insieme alla madre vive a Leeds. Prima della morte del padre, in un incidente automobilistico verificatosi mentre era insieme alla giovane amante, la vita scorreva come in qualsiasi altra famiglia felice. Lei studiava, tempo al passato perché ora non lo fa più, cinese all'università, la madre era un'apprezzata flautista nonché un'ammiratissima bellezza, cosa che ora non è più, e il padre un giornalista presso un quotidiano locale. Il lutto provoca l'interruzione di tutti i flussi vitali compresi la cura di sé nella vita quotidiana, la rinuncia all'uso della parola, sostituita da un nuovo dizionario degli sguardi, e all'opposto, la nascita di una serie di stravaganti ossessioni: la madre, presa dalla passione per la fotografia, immortala tutti i buchi esistenti nella casa; Camelia raccoglie vestiti difettosi, adattandoli alle proprie esigenze; distrugge, decapitandoli, i fiori, che vede nascere sulla strada in primavera, odiata stagione della rinascita in cui la terra mostra tutti i possibili e evidenti segni di ripresa della vita; perseguita un giovane cinese, Wen, di cui pensa di essere innamorata, mentre poi fa sesso sfrenato con il fratello maggiore di lui, Jimmy; si rifiuta ossessivamente di prendere atto dello scorrere del tempo e delle stagioni, ignorando volutamente l'alternarsi del giorno e della notte: insomma la confusione sotto le stelle è molta.
Le due donne sembrano prese da un gioco di negazioni, di inesistenze, di chiusure forzate nei confronti dell'esterno, della città in cui si trovano a vivere, delle persone che per affetto o per caso si imbattono in loro, senza darsi o prevedere un qualche possibile sbocco o via d'uscita verso una soluzione liberatoria dall'incombente figura maschile del marito-padre che le sta, anche dopo morto, divorando. Quando poi la madre tenterà una rinascita sarà ricacciata dalla figlia nel suo stato di quasi vegetale.
Carico di simbologie riferite al linguaggio, alle sue forme di comunicazione e di verbalizzazione, mostra evidenti sottotesti rispetto alla narrazione dei fatti relativi alle protagoniste. A proposito di questi non posso non notare la prevedibilità di alcuni comportamenti autodistruttivi o alienati o ancora pieni di rabbia o di desiderio di Camelia, tipicamente adolescenziali, o di sue esagerate reazioni che spesso risultano più il frutto di un lavoro di testa della scrittrice, molto razionalizzato, che un vissuto di sentimenti e di passioni.
La scrittura è intensa, a tratti enfatica, eccessiva e allucinata, ricercata e poetica e in altri disturbante nella sua puntigliosa descrizione degli stati di degrado, di umiliazione verso cui possono precipitare le esistenze in seguito a laceranti delusioni e a insostenibili inganni. Anche se di queste esistenze è data una rappresentazione iperealistica