Penitenza
Quel che non sai è che
ho scritto questa poesia cento volte,
l’ho scarabocchiata su innumerevoli menu e volantini rave di merda
con l’unica penna che sono riuscita a trovare,
che è sempre una biro minuscola color turchese.
Me ne sono trovata in tasca frammenti
e gli ho dato fuoco su quindici diversi davanzali.
E ho osservato il vento prender su le ceneri
per ributtarmele sempre in faccia.
La scrivo e immagino poi di dartela,
e ho talmente paura che scuoterai la testa
e mi dirai che non credi a una parola di quel che dico
che alla fine l’accartoccio in una palla stretta
e l’infilo dietro i sedili dell’autobus
dove la gente butta le ossa di pollo.
***
C’è una registrazione della realtà, una registrazione in presa diretta di un quotidiano che fissa tutto ciò che passa davanti, e attraverso, ed è l’occhio poetico di Kate Tempest che la fa: è una registrazione in forma di parole, in forma di poesia. Tempest guarda ovunque, mette il suo sguardo dove usualmente gli altri lo distolgono, fissa il fuoco dell’osservazione in quel presente per lo più relegato ad altri sguardi, lontani dalla poesia. Fa di più, per guardare usa anche le mani, l’olfatto, il corpo tutto: un corpo come strumento di conoscenza che si fa memoria, che custodisce il ricordo dell’esperienza tutta, per custodire se stesso. In questo modo Tempest guarda il presente e il passato, l’oggi e i miti greci, le ossa di pollo tra i sedili dell’autobus e Chopin, il vecchio zoppo che si allontana e Joyce; parla di identità in disagio, del proprio disagio, di una identità che solo sperimentando, conoscendo e preservando se stessa attraverso il suo ricordo può attraversarsi, mutare, evolvere, comunque andare. Un corpo conoscenza che lavora costruendo tasselli della proprio sé nella sua mutevolezza e nel farlo registra ciò che gli accade con una straordinaria capacità di narrare. Registra in versi, chiamando le cose con il loro nome, un quotidiano privato e universale che non diviene solo condivisione con il lettore/ascoltatore, ma si tramuta in denuncia ad alta voce, e diventa poesia e impegno civile.
***
Affanculo la poesia
Sono secoli che non scrivo
perché piuttosto che fissare una pagina, preferisco fissare te.
Ma la cosa che mi piacerebbe un sacco è
inventare una poesia che fosse coraggiosa anche la metà
di te quando sei nuda.
Per un attimo ci provo –
Il tuo amore è il mio metallo, i tuoi baci i miei bulloni.
Sei come l’oceano sotto una chiazza di petrolio.
Affanculo la poesia.
Qui c’è un letto
e vuoi che mi ci infili.
Kate Tempest, Hold your own Resta te stessa, trad. Riccardo Duranti,Edizioni e/o, Roma, 2018