«Il regno delle Hawaii era stato distrutto da tempo – il respiro delle foreste pluviali e il canto delle verdi rocce sottomarine schiacciati sotto i pugni degli haole, resort sulla spiaggia e grattacieli – ed era allora che la terra aveva iniziato a chiamare. Adesso questo lo so grazie a te. E so anche che gli dèi avevano fame di cambiamento e quel cambiamento eri tu».
Fin dalle prime righe di Squali al tempo dei salvatori (e/o, pp. 374, euro 18, traduzione di Martina Testa), nelle parole di Malia, sua madre, si comprende come nel destino di Nainoa sia inscritto un compito: prendersi cura dei propri cari come del suo intero popolo, di cui gli «haole» (i bianchi) minacciano lo spazio naturale quando non la stessa esistenza. E la prima prova del suo «dono» la darà da bambino, sopravvivendo a un branco di squali che ne riconoscono l’appartenenza a uno spazio diverso, separato, non solo umano.
Crescendo è alle difficoltà della sua famiglia, i genitori, un fratello e una sorella, sballottati dalla crisi economica annunciata dalla chiusura della piantagione di canna da zucchero in cui lavora il padre e poi costretti a spostarsi di isola in isola e, via via, prima in California e quindi a Portland, che il ragazzo dovrà guardare, affinando risorse e strumenti che incutono però paura e sospetti in chi gli sta intorno.
Nel suo romanzo d’esordio, immaginato a lungo e scritto nel corso di anni di spostamenti da una città all’altra degli Stati Uniti, fino all’attuale approdo a Minneapolis, Kawai Strong Washburn riversa molto più che il suo amore per la terra dove lui, figlio di un afroamericano e di una bianca, originari rispettivamente dell’Oklahoma e del Kansas, è nato e cresciuto. Le Hawaii nel libro diventano uno «spazio di senso» e le voci dei cinque protagonisti – Nainoa e i fratelli Dean e Kaui, oltre a i genitori Malia e Augie Flores -, distinte per toni e personalità, cui è affidato il racconto, finiscono per dare l’impressione di racchiudere il respiro e la storia delle isole, tutta la loro «magia» e la difficile sfida che affrontano da tempo a causa del turismo di massa e dello sfruttamento economico che ne sta minacciando l’habitat naturale e il clima. Un romanzo potente che declinando in una forma inedita la lezione del fantasy racconta una vicenda indimenticabile.
Ha scritto il romanzo nell’arco di dieci anni, mentre si trasferiva insieme alla sua famiglia da una città all’altra. Quale è stata l’idea di partenza e come si è modificata nel corso del tempo?
All’inizio c’era solo l’immagine di un bambino riemerso illeso dal mare dopo essere caduto da una nave in mezzo a un branco di squali che apparentemente lo avevano salvato. Avevo questa storia che mi girava in testa e cercavo di svilupparla, ma in un primo momento mi sembrava di non andare da nessuna parte. Così ho iniziato a pormi una serie di domande su chi fosse in realtà questo bambino, sul perché gli squali avessero potuto comportarsi in questo modo bizzarro, su cosa rappresentasse tutto ciò. È ho capito che era un racconto in linea con le cose che ricordavo dalla mia infanzia sulla mitologia hawaiana: l’idea degli aumakua, membri di una famiglia che ritornano in forma animale per proteggere i loro cari. Allo stesso modo, quando ero ormai alla seconda o terza bozza ho iniziato a pensare che la vicenda potesse parlare anche di temi più ampi, di come la storia di Nainoa e della sua famiglia evocasse questioni come la razza, la classe, le disuguaglianze e non solo il destino e ciò che può fare di noi.
Nel libro emergono un amore e una profonda conoscenza delle radici tradizionali e della mitologia hawaiana. È un retaggio degli anni che ha passato sulle isole?
Senza dubbio. Sono nato e cresciuto a Honoka’a, sulla costa di Hamakua nelle Hawaii. Ho vissuto lì fino a quando sono partito per il college e mi sono trasferito a Portland. Quindi i primi 18 anni della mia vita sono stati sulla Big Island: un’esperienza formativa straordinaria che mi ha arricchito profondamente. Le Hawaii sono molto diverse da qualsiasi altro luogo che abbia mai visitato, e non parlo solo degli Stati Uniti. Ci sono tutte queste diverse etnie e nazionalità mescolate che hanno prodotto un intreccio unico di riferimenti culturali e tradizioni, come di storie, leggende e superstizioni. Fin da bambino sono entrato in contatto con una serie incredibile di fonti, si trattasse dei racconti popolari tramandati nelle famiglie dei miei amici o dei corsi di studi hawaiani a scuola. Studiavamo la mitologia delle isole, ma molte altre cose sono arrivate per osmosi, semplicemente vivendo lì.
I protagonisti del romanzo sembrano utilizzare i riferimenti alla tradizione per rielaborare intimamente e in forma autonoma le difficoltà che si trovano a vivere nel contesto sociale statunitense, tra duri lavori manuali, necessità di emigrare e emarginazione. Il «mito» ha assunto anche questa funzione alle Hawaii?
Non posso parlare per tutti gli hawaiani, ma credo che per molti le cose vadano così. E, in ogni caso, è ciò che è accaduto a me, in particolare quando sono cresciuto e ho lasciato le isole. A quel punto ho cominciato a misurare lo scarto tra la storia e l’idea di nazione che vanno per la maggiore in America e la realtà delle disuguaglianze e delle barriere sociali e economiche che avevo visto all’opera alle Hawaii. Temevo che i riferimenti alla mitologia, il fatto di rendere questi elementi quasi come un attore soprannaturale della storia, potesse essere percepito come un tocco di esotico da cartolina che distorceva la realtà di quei luoghi. Ma la mia esperienza diretta dice che invece miti e tradizioni lì si mescolano con la vita di tutti i giorni. Perciò, alla fine, ho usato la presenza della mitologia nelle biografie dei miei personaggi per parlare della tensione tra le credenze locali e la società americana contemporanea.
Lei è nato e cresciuto alle Hawaii, ma ha deciso di scriverne solo dopo che aveva lasciato le isole. Come accade per le letterature della diaspora, questo romanzo le è servito per misurare la distanza da quei luoghi o piuttosto per ritrovare un legame sopito?
Il libro ha rafforzato profondamente il mio legame con le Hawaii, e in modi che non mi sarei mai aspettato. Mi ha aiutato a mettere a fuoco la differenza tra le isole e i luoghi in cui ho vissuto in seguito, a capire quanto quel posto ha avuto un’influenza profonda sulla persona che sono diventato e a fare chiarezza sula mia identità,
Il suo lavoro è spesso accostato a quello di autori come Tommy Orange, Marlon James e Ocean Vuong: condividete un nuovo sguardo sulla narrativa americana?
In questo Paese ci sono sempre più scrittori che raccontano storie con un’identità che espande le nostre idee non solo su ciò che il romanzo può essere, ma anche su cosa significhi nel contesto di una storia «americana». Sono felice e onorato di essere considerato parte di questo gruppo ora in forte crescita, ma non dimentico che molti di loro sono venuti prima di me e hanno affrontato barriere più grandi delle mie nel dare vita alle loro storie. Sono perciò grato alle opportunità che per questa via hanno aperto anche a me.