Piccola osteria senza parole di Massimo Cuomo è un romanzo che ci ha conquistato come accade con certi amori che non ti aspetti. Che anzi cominciano da un’impressione sbagliata, da un’indignata ripulsa. E poi? E poi ti agganciano, sbaragliando ogni difesa. Scrivere la recensione di un romanzo bello non è facile. Misuri lo scarto fra ciò che vorresti dire e l’inadeguatezza delle parole.
La bizzarra brigata dei personaggi di Massimo Cuomo ci porta in un paesino di case sparse e campi che puzzano di letame (ecco, Massimo Cuomo direbbe merda, lui non ci gira attorno). Siamo al confine fra il Veneto e il Friuli e il bar-osteria della Gilda è il centro del mondo. La provincia qui è nei soprannomi che demarcano persone e cose, e nella televisione che racconta in sottofondo le cronache dei mondiali del ’94. Quelli con Nicola Berti che le sgarrava tutte e i due Baggio che facevano miracoli.
La provincia qui è un luogo ma anche un tempo (preciso) che ci inzuppa di nostalgia. Un posto dimenticato da Dio dove si ritrovano amici, amori, tradimenti e follie. E dove, chissà perché, si vorrebbe rimanere anche quando il romanzo si chiude.
Se volete sapere cosa ci ha conquistato delle Piccola Osteria senza parole leggete questa recensione fino in fondo. E scusateci se siamo arrivati tardi: il romanzo, infatti, ha già sette anni!
Piccola osteria senza parole – Massimo Cuomo: l’argomento
Una Ritmo amaranto finisce in un fossato mentre uno dei protagonisti è intento a defecare. E noi siamo lì con lui: odori, colori, consistenze. Nulla ci viene risparmiato. Vorremmo dirvi che poi tutto cambia ma mentiremmo. I protagonisti di questa storia continuano a smadonnare, scatarrare, sudare, abbandonarsi a bisogni corporali d’ogni tipo. E lo stesso paese Scovazze, che vuol dire immondizia, odora di sterco da sempre. Eppure la poesia è tangibile fin dalle prime righe, erompe senza sdolcinatezze, senza finzioni. Molto al di là della retorica. Nella leggerezza di un sorriso e nella malinconia di un tempo scandito dalle partite in TV.
La poesia è nei personaggi – tutti. A partire dai soprannomi e dai ritratti. Bepo Basso col pannolone. La Gilda con i seni sul bancone. Silvana Rasutti, eterea creatura che sogna i marziani. Carnera, il gigante senza parole. Malattia e le sue ossa storte. L’Avvocato, donne e motori. Francone in un ritratto. Bruno Borìn di fronte alla Sopravvissuta, una slot machine che ha la presenza scenica di un personaggio. E naturalmente Salvatore Tempesta che giunge dal Sud a cercare qualcosa (o qualcuno). E come il vento caldo della prima estate porta l’amore in paese. E un Paroliere che magicamente regala amicizia e parole alla gente silenziosa di Scovazze.
E sì, è proprio Salvatore il nostro preferito. Perché il suo segreto innesta nella narrazione il meccanismo della suspense. Ma anche perché somiglia a certe divinità minori, a metà tra un satiro e un folletto, capace di far fiorire l’arsura. Lui ci spiazza per come si presenta sulla scena a brache calate. E per come se ne va. Come il vento, senza proclami. Chiudendo il cerchio.
I luoghi del romanzo
Sapete che nelle letture e nelle recensioni noi cerchiamo prima di tutto i luoghi. E qui hanno una caratterizzazione precisa che passa attraverso i sensi: i paesaggi li vediamo, li ascoltiamo e ancor di più li annusiamo.
Il profondo Nord è nelle nutrie che mangiano gli argini. Nella campagna punteggiata di capannoni, nelle cimici sotto le foglie di granoturco. Nel mare dal fondale verde cupo. Nel toro malinconico fuggito da un’azienda in decadenza. E soprattutto nei fratelli Sorgòn che giocano a carte in un dialetto stretto senza sconti e che sono parte del quadretto di paese. Complementi d’arredo di un bar che ha tutto ciò che ci si aspetta da un bar di provincia senza tuttavia mai scadere nello stereotipo. Anzi, Cuomo sa giocare bene con gli stereotipi. Gli dà sostanza e sfumature. Li fa vivere e virare d’improvviso verso esiti inaspettati.
“A Scovazze sono tanti i negozi che abbiamo desiderato invano” spiega con una vena di malinconia nella voce impostata. “Abbiamo desiderato un’officina meccanica, una farmacia, un barbiere, una merceria” dice. “Abbiamo desiderato un alimentari, un tabaccaio, una macelleria” dice. “Un elettrauto, una pizzeria, le onoranze funebri, una gelateria e un bocciodromo, abbiamo desiderato tanto un bocciodromo”
Dalla saga della salsiccia in onore della Madonna delle Grazie al night sperduto in un punto imprecisato della bassa. Dalle macerie dei luoghi abbandonati al fieno da falciare. Passeggiamo in un paesaggio in cui manca tutto ma che celebra l’essenziale. E che sentiamo familiare, abbrancati dalla nostalgia.
Piccola osteria senza parole – Massimo Cuomo: la struttura narrativa e lo stile
Piccola Osteria senza parole si suddivide in 60 brevi capitoli senza titolo, scanditi dalle date. Li precede una prefazione che ci informa sulla genesi del romanzo. La vicenda copre un arco temporale che va dall’inizio dei mondiali venerdì 17 giugno agli ottavi di finale: Italia – Nigeria del 4 luglio. Il ritmo lento e l’evoluzione dei personaggi, però, fanno pensare a una stagione molto più lunga. Ma in provincia funziona così. Il tempo scorre piano piano, si sgrana un giorno dopo l’altro con dolcezza.
Chi racconta la vicenda? Il narratore è un personaggio secondario del bar-osteria: lo scrittore. Uno sguardo laterale che si posa su tutti i dettagli, sui personaggi, sui loro discorsi. Una presenza così discreta che te la dimentichi, ma c’è. E che ci porta di tanto in tanto a riflettere sulla scrittura come forma di voyerismo e di salvezza (dalla noia, dalla solitudine e dalla mancanza di parole)
La scrittura di Massimo Cuomo è diretta e non teme l’immagine sgradevole, cerca spesso la scatologia e la serve in tutta la sua corporeità. Così la poesia, quando arriva, è un’illuminazione. Ha la potenza e la pienezza della sincerità, la precisione di chi sa rinunciare al superfluo e dar peso alle parole. Il dialetto, poi, che viene dalla voce di alcuni personaggi si impasta al paesaggio e in certi passaggi ha il fascino ambiguo di una formula magica: comm’ea?
E poi c’è un altro aspetto, secondo noi, da sottolineare. La scrittura di Massimo Cuomo porta sorrisi, leggerezza e un filo – necessario – di malinconia. Assomiglia a Salvatore Tempesta, il più bel personaggio in cui ci siamo imbattuti da un po’ di tempo a questa parte. Ma questo la abbiamo già detto.
Conclusioni mon amour
Abbiamo incontrato questo romanzo per caso. In realtà eravamo interessati all’ultima fatica di Massimo Cuomo che, al momento della redazione del nostro articolo, non è ancora in vendita. Abbiamo deciso di leggerlo comunque, in attesa del romanzo nuovo, attratti dal titolo e dalle poche righe sulla quarta di copertina.
Com’è andata lo sapete. Dopo la recensione di Io resto qui di Marco Balzano e La Piccola di Paola Azzoni abbiamo aggiunto un altro tassello alla rappresentazione letteraria della provincia settentrionale. Per noi, che siamo pugliesi, si è trattato di un viaggio a tutti gli effetti.
Consigliamo la Piccola Osteria di Massimo Cuomo a chi vuole lasciarsi cullare dalla nostalgia degli anni Novanta. Un territorio narrativo nuovo per far correre le proprie malinconie, meno noto dei Sessanta e dei Settanta e perciò carico di promesse. Tutte mantenute, secondo noi.
Vi aspettiamo nei commenti. Siamo davvero curiosi di scoprire che cosa ne pensate.
Voto: nove +