Nelle storie come quelle di Guerre Stellari basate sui poteri di un predestinato, di un chosen one capace di mendare la collettività dal male, c’è il fatidico momento cui il prescelto dubita di sé stesso. Nei casi peggiori anche la comunità attorno a lui inizia a dubitare: e se non fosse speciale per davvero? Oltre ad arrecare un’immensa solitudine – un tema sempre battuto nel filone dei supereroi, da quelli moralmente rassicuranti come Spiderman a quelli più disperati in Watchmen –, questo potere sembra avere comunque un sapore sbagliato per chi lo riceve e per chi ne è testimone. Forse perché sostituisce il miracolo alla giustizia, la magia al cambiamento sociale. Persino nelle opere di fantasia, arriva il momento in cui Marx e la forza che scorre potente in qualcuno si prendono a cazzotti. Cosa succede se tutto questo accade all’interno di una famiglia hawaiana che vive in condizioni di spietato realismo ma è devota agli spiriti della notte? Le Hawaii hanno uno dei tassi di povertà più alti degli Stati Uniti, e forse una delle sue cosmogonie più raffinate e complesse. Non c’è un rapporto diretto tra questi due fenomeni, ma è pur vero che dati e divinità hanno modi subdoli di influenzarsi a vicenda, e adesso è arrivato un romanzo a renderne conto.
Nainoa Flores è un bambino quando scopre di avere poteri speciali (si salva la vita in mezzo ad acque infestate da squali) e quando i suoi genitori iniziano a costruirgli attorno un sistema di fede, affidando l’emancipazione della famiglia al lavoro e allo studio, ma soprattutto a una specie di comunismo magico per cui Nainoa cura cani, tossici e malati secondo le sue capacità, e per i bisogni di tutti. Le conseguenze di questo sistema di fede si susseguono come piccole onde in Squali al tempo dei salvatori, il romanzo di esordio di Kawai Strong Washburn. C’è la solitudine del miracolato, il dubbio che il suo dono sia davvero tale, c’è la devastazione che la sua condizione procura nelle vite del fratello Dean e della sorella Kaui, in una specie di trinità imperfetta per cui lo spirito di Nainoa abbaglia tutto, e costringe gli altri due a essere sempre e soltanto figli ignorati da un padre. I tre emigreranno dalle isole delle Hawaii per raggiungere la terra ferma e tradurre le aspirazioni dei loro genitori in qualcosa di concreto: Nainoa diventerà un tirocinante in medicina, Dean un giocatore semi-famoso di basket prima e un fattorino dopo, e Kaui una studentessa di ingegneria appassionata di arrampicate. Si chiameranno dalle città davvero «davvero» americane in cui vivono, senza troppo impegno e nostalgia. Come ammette Kaui, la nostalgia che prova per casa è diversa da come se l’aspettava: meno disperata, e meno forte. Ma se la trinità si spacca, il miracolo non si compie, e dall’ascesa dello spirito nella prima parte del romanzo si passa lentamente al sacrificio, con tutto il dispendio di emotività che questo comporta per i personaggi. E se il potere di Nainoa non fosse servito ad altro che a essere dissipato? Come ci si sente, a magia morta?
Squali al tempo dei salvatori è un romanzo inventivo, dotato di una bontà quasi fuori moda, di una scrittura lirica e visiva che non si compiace di se stessa e neanche si vergogna e soprattutto tenta qualcosa di difficile per un esordiente: scrivere d’amore senza corrompere l’amore al fine di renderlo letterariamente più nobile o interessante. Come Nainoa, Washburn tenta sempre di salvare i suoi personaggi dalla prevedibilità del cinismo e del disincanto, ma sente la loro sofferenza e sta in intimità con la loro disperazione. È una misura difficile, quella della speranza che non sgocciola in ingenuità, e non tutti gli autori sanno gestire la sofferenza senza ridurla a trauma. Sotto questi aspetti, Washburn è un autore persino audace, e si presenta al mondo con un romanzo definito dalla fame: letterale, metaforica, spirituale. In un certo senso, tutti in questa storia sono dipendenti, e hanno un desiderio di tossicità: le pagine in cui Nainoa si riempie il corpo con la vita delle persone che prova a guarire ricordano quasi sequenze da Irvine Welsh a livello di saturazione dello sguardo e delle vene; è tutto un incendio di colori e sensazioni. Una specie di Riparare i viventi in cui organi e sangue diventano le note basse e compulsive all’interno di una singola persona. Nainoa non lo fa solo perché deve, perché è il prescelto, ma perché così sfama anche un suo desiderio. Suo fratello Dean diventa dipendente dai soldi e dal modo di farli separandosi dalle Hawaii, ma non in un’ottica americana-corrotta-capitalista; Washburn presenta la sua fame in maniera più complessa, in cui l’euforia del guadagno coincide con l’euforia di dare. C’è Kaui, la sorella, che a un certo punto chiede alla madre «se l’amore l’ha mai fatta sentire sola. Se le è mai sembrato di morire di fame in una stanza che è piena di robe da mangiare», in uno dei passaggi più toccanti, quando ripensa all’essere stata rifiutata da una ragazza. Il momento in cui questo bisogno si fa totale e lascia i personaggi inermi e nudi è un momento da cui non potranno mai tornare indietro. Potranno migliorare, guarire, sparire, ma una parte di loro resterà in quell’istante e diventerà un obake, un fantasma, o forse solo un’altra divinità da adorare come fa Malia, la madre (è bello che in lingua italiana questo nome diventi una delle chiavi di lettura del libro, essendo la malia la capacità di innescare effetti sconcertanti e che imprigionano chi ne è affetto). In un romanzo tradizionale, Malia sarebbe la madre sacrificio che fa del suo meglio e non ammetterebbe mai che la sua fiducia negli dei a volte è stata quasi una tossicodipendenza, che ha fatto svanire persino le personalità e le esigenze dei suoi stessi figli. Ma trattandosi appunto di Hawaii, di isole fatte di divinità in cui regine e contadine si equivalgono, e in cui i re hanno dovuto confrontarsi subito con la precarietà del loro potere continuamente rovesciato dalla natura e dall’acqua, è impossibile dare una connotazione di sconfitta a questa dipendenza o credere che non abbia capacità di rigenerazione. La retorica vuole che è nell’emancipazione dal bisogno che l’anima si libera: Washburn prova a dire che è sprofondando nel bisogno che questi personaggi rivelano la propria anima, e il compito minimo di uno scrittore è quello di contrastare la retorica, o di inventarne un’altra. C’è sempre qualcosa di confortevole quando un altro pezzo di America appare nella mappa del nostro immaginario. Squali al tempo dei salvatori contribuisce infatti ad ampliare la geografia, la lingua e l’esperienza americana, in maniera non dissimile da Tommy Orange nel commovente Non qui, non altrove uscito in Italia per la Frassinelli in mezzo a un silenzio abbastanza incomprensibile. Lì Orange trattava di nativi americani inurbati a Oakland, qui Washburn parla di hawaiani che arrivano nel continente, e provano a gestire l’osmosi tra modernità e tradizione. Orange e Washburn sono gli eredi di una nazione polifonica, ancestrale quanto accelerata e che prova a decolonizzarsi (se non altro nel romanzo) a partire da ecologie inquinatissime. Tutti e due sono capaci, sprofondando in questa tossicità, di rivelare un imprevedibile splendore, che da tempo sfugge ai loro colleghi figli di una sola nazione, e di una sola lingua.