Il primo vero libro che io abbia mai letto, fu un libricino dalla copertina rosa. Centoquindici pagine che mi fecero scoprire il magico mondo della parola. Tredici capitoli che mi aprirono una finestra su quel periodo storico chiamato Seconda Guerra Mondiale. Ricordo il momento esatto in cui scoprii il libricino dalla copertina rosa su una mensola di legno in camera di mio fratello. Rimasi come ipnotizzato dal titolo. Una bambina e basta. Quell’ingenua impazienza di crescere che tanto caratterizzò la prima fase della mia vita, venne d’un tratto scossa come da un terremoto. Quelle parole funsero immediatamente da richiamo. Da invito. Da imperativo. L’imperativo di essere di essere un bambino. Un bambino e basta. “La scrittura è un pozzo di emozioni sempre in fermento”, mi spiega Lia Levi, l’autrice del libricino dalla copertina rosa. Indossa un elegante maglione viola e sorride spesso quando parla. “Mi trovo molto bene con voi giovani, mi aiutate a ricaricarmi”, mi confessa durante il nostro incontro. All’anagrafe risulta avere ottantanove anni, ma sentendola parlare pare ancora una giovane donna amante della vita. Una giovane scrittrice entusiasta del suo mestiere. Dopo aver pubblicato decine di libri e vinto altrettanti premi, infatti, Lia Levi non è ancora sazia di storie e di racconti. Scrive per fedeltà. Scrive perché deve mantenere una promessa fatta a quella bambina che è stata durante la guerra. A quella Lia bambina che scrisse una lettera alla Lia adulta chiedendole di non dimenticarsi di diventare una scrittrice. Scrive nel tentativo di semplificare la complessità della vita. Per risolvere il mistero di quella storia di cui è stata protagonista. Scrive per passione, per vocazione, per necessità. Scrive per se stessa, bambina e basta di allora, e per noi, bambini e basta di oggi.
Signora Levi, lei ha inaugurato la sua carriera da scrittrice con una frase che recita: “Non mi piacciono i grandi quando decidono di farti un discorso. Si sentono evoluti e magnifici, ti guardano negli occhi, cercano il tono a mezza altezza…”. Ecco, saprebbe dirmi quando ha realizzato di essere passata dall’altra parte? Voglio dire, quando ha sentito di essere diventata grande anche lei?
Già a undici anni, nel convento in cui sono stata, dove gli echi arrivavano da lontano. Poi, dopo la liberazione, ho cominciato a conoscere l’orrore attraverso i racconti degli altri. Attraverso i libri e i documentari. Per questo motivo a volte dico ai ragazzi: “Io ho conosciuto l’orrore come l’avete conosciuto voi, attraverso le testimonianze”. Eppure è diverso, perché io avevo un buco vuoto. Soffrivo, ma non sapevo di cosa.
Lei si è appunto salvata poiché nascosta in un convento. Mi domando che segni abbia lasciato sulla donna ebrea quale è oggi, un’infanzia trascorsa con le suore.
Il periodo del convento è stato un periodo di adattamento. Essendo isolati, quasi non ci rendevamo conto di quanto grande fosse il pericolo là fuori. Ero talmente impegnata a adattarmi a quella nuova situazione, che tutte le mie energie venivano spese così. Accettavo ogni cosa, cercando di capire quale fosse il miglior modo di comportarmi. Ecco, quel periodo non era un periodo felice, ma era un periodo necessario, nel quale ho fatto ciò che andava fatto.
Questa è l’impronta che le è rimasta? Il senso di adattamento?
Sì, rimane questo. Rimane la domanda che ci si pone nei momenti di difficolta. “Come posso reagire? Cosa devo fare per andare avanti?”. E questa è una forza. Una forza rimasta.
Questa esperienza ha in qualche modo influito sulla sua concezione o percezione di fede?
Direi di no, perché la mia famiglia non era molto religiosa, ma comunque fortemente attaccata all’ebraismo. Ecco, l’attaccamento all’ebraismo è cresciuto in me. Quello alla religione invece no.
Lei crede in Dio Signora Levi?
Credere in Dio… Diciamo che io leggo e ascolto molto quelli che interpretano la Bibbia. Sono una frequentatrice della religione ebraica, ma non una religiosa. Sono una spettatrice partecipe al lavoro degli altri.
Parliamo un po’ di scrittura. Come nasce il desiderio di scrivere? Quando decide di raccontare al mondo la propria storia?
Non sono diventata scrittrice per raccontare la mia storia o per bisogno di testimoniare. Quando ero piccola leggevo moltissimo, anche per motivi esterni. Non facevo altro che leggere. Mi sentivo già parte del mondo del libro, sicché avevo deciso di diventare scrittrice. Scrissi persino una lettera a me stessa da grande. Una lettera che ancora conservo e che dice: “Cara Lia, ricordati che da grande devi fare la scrittrice. Non dire che sono tutte sciocchezze, scrivi le tue storie!”. Mi sono ricordata sempre di questa promessa e sapevo che sarei diventata scrittrice, ne ero sicura. Io sostengo tuttavia che il lavoro dello scrittore non sia un lavoro per giovani, nonostante ce ne siano tanti e bravissimi. Ai giovani piace stare in compagnia e il lavoro dello scrittore è un lavoro solitario, nel quale si sta ore e ore da soli. Così per tanti anni ho fatto la giornalista, finché ad un certo punto ho sentito che era giunto il momento di diventare scrittrice. Quando ho dunque deciso di cominciare, da dentro mi è venuta questa storia. La mia storia. Una storia che è stata una fonte d’ispirazione e che lo è anche adesso. La scrittura d’altronde è un pozzo di emozioni sempre in fermento, dal quale spero di poter tirare fuori molte altre storie.
Nonostante la sua identità di scrittrice sia assolutamente indipendente da quella di sopravvissuta, credo che la vita di un sopravvissuto si divida comunque in tre fasi. La fase del silenzio, la fase della parola e un ritorno alla fase del silenzio. Dopo aver superato la barriera invisibile del silenzio e aver dedicato la propria vita al ricordo, infatti, molti superstiti decidono di ritirarsi nuovamente nel silenzio. Lei invece pare un fiume in piena, all’apice della sua carriera di scrittrice.
La prima fase del silenzio l’ho avuta anch’io, ma per un motivo diverso. Il fatto è che leggendo gli altri libri e ascoltando le altre testimonianze della Shoah e dello sterminio, la mia storia mi è sembrata del tutto irrilevante. Di fronte a una tragedia così enorme, mi sembrava quasi una mancanza di riguardo raccontare la mia storia. Una storia drammatica, sì, ma non tragica. Poi c’è stato uno sblocco, perché ho scoperto che la gente aveva preso ormai coscienza dello sterminio, ma non delle leggi razziali del fascismo. Persone colte mi avevano confessato di non sapere che erano esistite delle leggi razziali in Italia. A quel punto ho deciso di tirare fuori la mia storia e raccontarla in un libro.
E la terza fase? Il ritorno al silenzio?
Vedi, io incontro i ragazzi nelle scuole e sono loro che mi danno l’incentivo di continuare a raccontare. Ragazzi che negli anni si moltiplicano, che fanno ricerche e lavori bellissimi.
So che non è elegante svelare l’età di una signora, ma lei ha ottantanove splendidi anni, eppure è considerata da molti una delle autrici più amate dai giovani italiani. Riesce ad arrivare ai cuori dei ragazzi ignorando del tutto il fatto che, a dividervi, vi sono almeno due generazioni. Si rivolge a loro come se parlaste la stessa lingua. Ecco, mi spiega come fa a rimanere tanto rilevante e tanto attuale?
Beh, innanzitutto io ho parecchi nipoti, quindi i ragazzi li conosco bene. Non c’è mai stata una barriera tra noi. Poi il mio è uno stile semplice, che si adatta molto ai giovani. Però qualcuno pensa che scrivere in modo semplice sia più facile, invece è più difficile. Infatti io dico sempre che la semplicità è complessità risolta. La scrittura semplice dunque non nasce così, ma è frutto di una ricerca.
Possibile che sia la “bambina è basta” che vive ancora in lei a rivolgersi a questi ragazzi?
Sì, certamente.
L’espressione “una bambina è basta”, d’altronde, può sembrare un capriccio, ma in realtà è un motto. Il motto di tutti quei bambini che vogliono e meritano di essere trattati come tali. Signora Levi, le capita ancora di rivendicare quella bambina e basta che è stata?
Sì, in nome di quei tanti bambini e basta che ancora ci sono. Io, bambina e basta di allora, parlo ai bambini e basta di oggi, che devono affrontare questo riemergere di razzismo e di rifiuto. Io ai ragazzi un tempo dicevo che dovevano accettare il diverso. Oggi invece dico loro che non devono accettare il diverso, ma essere diversi. Non dobbiamo essere conformisti, dobbiamo essere tutti diversi.
I titoli dei suoi libri citano spesso la notte, quasi come fosse sinonimo del male. Di cosa è composta la notte di Lia Levi?
La mia notte è buia, non è la notte romantica delle stelle. No, la mia notte è molto buia. Ognuno accanto alla sua notte, il mio ultimo romanzo, racconta infatti il dolore. Un dolore che ogni personaggio vive con un’intensità personale, che ognuno deve affrontare a modo suo. Ecco, questo libro cerca di coniugare il dolore universale in modo personale, dove tutti sono diversi, ma tutti sono uniti dallo stesso sentimento.
Quali sono stati i punti di luce nel buio della sua vita?
Devo molto alla lettura e alle amicizie. A quelle persone con cui parli e anche discuti. Poi naturalmente agli affetti, quelli piccoli e quelli grandi.
Cosa vorrebbe che i suoi libri lasciassero a chi li legge?
No, non bisogna essere presuntuosi. È vero che la letteratura si muove, ma la vera letteratura resta. Che io pensi che i miei libri possano lasciare qualcosa? No, è davvero troppo presuntuoso.
Insisto Signora Levi, cosa desidera lasciare?
Beh, io ho un nipote che scrive sceneggiature. Ha uno stile diverso dal mio, ma il solo fatto che ci sia una persona in famiglia con la mia stessa passione, mi basta. Sento di potermici appoggiare.
Tornando al ricordo, vi sono diverse scuole di pensiero circa il modo giusto di “fare memoria”. C’è chi sostiene che il ricordo sia fondamentale in ogni epoca e chi sostiene invece che il ricordo sia stato inflazionato. So che lei crede moltissimo nell’esercizio della memoria, ma esiste forse un limite a questa pratica?
Io mi sono sempre battuta contro quelli che dicono che il ricordo sia tramontato, che sia diventato un fatto mediatico o che sia diventato solo un rituale. Vedi, io non mi illudo che tutto sia puro e tutto sia bello. So che non esiste cosa che non venga rovinata, profanata o resa banale. Io dico solo che non bisogna abolire il ricordo. Ai cattolici per esempio spiego che il Natale è diventato solo consumismo e regali, ma a nessuno verrebbe mai in mente di abolire il Natale. Vero? L’obiettivo è quello di migliorarlo, non di abolirlo. Ecco, allo stesso modo non dobbiamo abolire il ricordo. Athos De Luca ha detto una frase che mi è molto piaciuta. Ha detto che il Giorno della Memoria ha liberato gli ebrei dalla responsabilità di essere loro i soli a raccontare. Ecco, il Giorno della Memoria è diventato di tutti. Io lo sento. Certo, gli ebrei sono i testimoni diretti dello sterminio, però credo che anche la società colta, quella che macina idee e sentimenti, continuerà a ricordare.
Signora Levi, vorrei porle una domanda finale, una domanda terribile. Vede, so che ci sono alcuni sopravvissuti che si sono sentiti in colpa di non aver conosciuto la realtà dei campi di sterminio. Che si sono sentiti colpevoli di essere sfuggiti alla morte. Lei ha mai provato questi sensi di colpa? Ha mai provato vergogna pensando a chi non ce l’ha fatta?
Io credo che sia quasi universale questo senso di colpa. Noi siamo gli scampati, non siamo i sopravvissuti. Io ricordo che anche da bambina mi domandavo: “Perché io mi sono salvata e la mia compagna di scuola no?”. Vedi, non è che sono stati premiati quelli che hanno pensato di più o quelli che erano più forti. È il caso che ha giocato un ruolo importante. E tu resti con quel mistero che ti tormenta dentro. Un mistero che ti fa sentire a disagio con i veri sopravvissuti. Una volta per esempio mi invitarono ad un liceo con Piero Terracina. Durante la sua testimonianza piansero tutti. Piansero gli insegnati e piansero gli alunni. “Ora tocca a te parlare”, mi disse lui dopo aver finito, ma io mi rifiutati. Cosa dovevo raccontare? Era impossibile per me sopportare l’idea di dover comparare quelle due esperienze.