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Preghiera per Černobyl’ – Svetlana Aleksievič

Testata: La biblioteca di Montag
Data: 20 gennaio 2021
URL: https://labibliotecadimontag.wordpress.com/2021/01/21/preghiera-per-cernobyl-svetlana-aleksievic/

Intorno alla centrale nucleare di Černobyl’ – nella Bielorussia che allora era Unione Sovietica – brulicava il futuro sfavillante del progresso comunista. Il popolo aveva una fiducia incrollabile nei suoi capi, niente di ciò che dicevano poteva essere smentito dai libri di fisica, dagli scienziati che di atomi e reazioni nucleari ne sapevano più del PCUS o da un reattore che esplode nel cuore della notte producendo una nuvola letale di sostanze radioattive. Era il 26 aprile 1986 e non c’era dubbio che il Partito avesse ragione, che non c’era pericolo, che la situazione era sotto controllo e che chiunque dicesse il contrario era un disfattista e un nemico del popolo. Gorbačëv stesso lo aveva detto: non c’è alcun problema. E tutti – o quasi – gli avevano creduto e si erano messi a organizzare i picnic per il primo maggio. Quando si chiesero sacrifici – sacrifici umani – per spegnere l’incendio al reattore numero 4, a gettare sacchi di sabbia nel cratere e scavargli un tunnel sotto la pancia per scongiurare un esplosione ancora più forte che avrebbe fatto saltare mezza Europa, nessuno si tirò indietro. Ed erano padri ed erano giovani, perfettamente coscienti di quello che andavano a fare; perfettamente consapevoli di cosa li avrebbe aspettati dopo. Sono andati a morire volontariamente perché ai dirigenti comunisti lo scandalo agli occhi del mondo faceva più paura dell’atomo impazzito, della grafite che continuava a bruciare, delle vite esposte ai röntgen fuori controllo, votate a una morte atroce, lenta e dolorosa. Quelle vite lo sapevano che una volta arrivati lì le loro speranze di futuro, i sogni, le aspettative, la carriera, il matrimonio, i figli si sarebbero accartocciati come un foglio di carta nel fuoco e di essi sarebbe rimasta solo la cenere.

…Il nostro sistema, che in fin dei conti è di tipo militare, funziona meglio nelle situazioni d’emergenza. E lì anche tu sei finalmente libero e indispensabile. La libertà! È in momenti del genere che l’uomo russo mostra fino a che punto sa essere grande! E unico! Non diventeremo mai degli olandesi o dei tedeschi. E non avremo mai un asfalto decente e delle aiuole ben curate. Ma di eroi, qui da noi, se ne trovano sempre!

Si comprava il silenzio coi diplomi di merito, gli encomi, la vodka; coi rubli moltiplicati delle paghe, ché tanto una volta tornati a casa non sarebbero serviti per quell’automobile o quella dacia. Non sarebbero serviti a niente perché quegli uomini sarebbero morti tutti senza godersi niente e alla propria famiglia avrebbero lasciato in eredità soltanto le scorie che si portavano addosso.

Mi sono tolto gli indumenti che indossavo laggiù, e ho buttato tutto quanto nella canna dell’immondizia. Però la bustina militare l’ho regalata a mio figlio piccolo. Aveva tanto insistito. Se la teneva sempre in testa. Di lì a due anni gli hanno diagnosticato un tumore al cervello.

Eppure non è durato a lungo il segreto di Stato, perché la nuvola sopra Černobyl’ si è spostata verso l’Europa, i telegiornali ne hanno parlato, il panico si è diffuso, i supermercati sono stati presi d’assalto in Italia, in Francia. E nel raggio di trenta chilometri dalla centrale nucleare la popolazione è stata evacuata e tutte le famiglie che prima si erano affacciate ai balconi per godere del bagliore bluastro e rosso che saliva dal reattore, adesso dovevano lasciare in fretta e furia le loro abitazioni, non portare niente con sé. I figli separati dalle madri. Le case sono state sotterrate, gli animali soppressi e seppelliti nei biotumuli, il primo strato di terra è stato vangato con tutto ciò che lo abitava, vermi, insetti, semi.

Voglio raccontare di come mia nonna ha detto addio alla nostra casa. Ha chiesto a mio padre di portare fuori dalla dispensa il sacco del miglio e l’ha sparso in giardino: “Per gli uccellini del buon Dio!”. Ha raccolto le uova in un paniere e le ha lasciate qua e là sull’aia: “Per il nostro gatto e per il cane”. Ha anche affettato per loro del lardo. Ha svuotato tutti i suoi sacchettini di semi di carota, zucca, cetriolo, nigella…e anche di diversi fiori…E li ha sparpagliati per l’orto: che vivano nella terra! E poi si è inchinata davanti alla casa…si è inchinata davanti alla rimessa…ha fatto il giro del frutteto inchinandosi davanti a ogni albero di melo…

Nessuno era preparato, qualcuno aveva troppa fiducia e qualcun altro non capiva perché la radiazione non si vedeva e tutto era uguale a prima. Ma gli uccelli morivano stecchiti cadendo dagli alberi e gli uomini che avevano prestato servizio laggiù erano tornati stravolti, incupiti, silenziosi. Quello che avevano visto e vissuto si sarebbe manifestato prestissimo nella loro carne e allora chi non aveva capito ha cominciato a capire e chi voleva dimenticare ha cominciato a parlare, timidamente, esponendosi a qualcosa di più forte delle radiazioni: il riverbero della memoria. In molte persone il bisogno di condividere ha superato la tentazione di macerarsi dentro lasciandosi morire e in altrettante ha giocato l’indignazione nel constatare che, in effetti, non tutti sono stati eroi. Non lo sono stati, per esempio, i dirigenti di Partito che hanno sottostimato il rischio, che hanno minimizzato la necessità di assumere iodio per contrastare i danni delle radiazioni, che hanno ritardato l’evacuazione per non seminare il panico, che si sono cibati di pietanze scelte e si sono protetti con mascherine e cerate, mentre soldati, liquidatori, minatori sono stati mandati a mani nude a gestire l’emergenza ed è stato dato loro il cibo contaminato. No, laggiù non tutti sono stati eroi. Sì, tutti hanno avuto paura, ma qualcuno la paura l’ha ingoiata e ha offerto se stesso, qualcun altro l’ha sputata ed è scappato. La corruzione e la borsa nera sono diventati l’anima del mercato, i razziatori hanno svaligiato le case, trafugato suppellettili rivendute in tutta la Bielorussia. E così il latte e così la carne. Tutto contaminato. Tutto velenoso.

A Černobyl’ ho conosciuto e percepito qualcosa di cui non si vorrebbe parlare. Del fatto, ad esempio, che tutte le nostre idee umanistiche hanno un valore relativo…In situazioni estreme, l’uomo sostanzialmente non è affatto come ce lo descrivono i libri. Quell’uomo dei libri non l’ho mai trovato. Mai incontrato. È tutto l’opposto. L’uomo non è un eroe. Tutti noi non siamo altro che dei venditori di apocalissi. […]Il meccanismo del male continuerà a funzionare anche quando comincerà l’apocalisse. Me ne sono convinto. Si continuerà a spettegolare, a leccare i capi, a mettere in salvo il televisore e la pelliccia d’astrakan. Anche il giorno della fine del mondo l’uomo resterà tale e quale. Come è adesso. Sempre.

I černobyliani non li voleva nessuno, popolo senza terra, dentro stanze in affitto, dietro teli di plastica su un letto di ospedale, malvisti e schifati da tutti. Loro, i contaminati, che partoriranno una progenie mostruosa. Un popolo di vedove e di orfani soffocati dai ricordi, dai tumori, dai lutti, dalla rabbia, dal silenzio, dal disagio di portare addosso uno stigma, di parlare senza essere creduti. Perché che cosa si può raccontare di una morte che arriva di soppiatto, a poco a poco, che sfigura e lascia il vuoto attorno?

Ma nonostante tutto siamo andati ancora qualche volta al cinema. E lì ci siamo baciati. Eravamo sospesi a un filo così sottile sottile, e invece ci credevamo di nuovo saldamente aggrappati alla vita. Cercavamo di non parlare di Černobyl’. Di non ricordarlo neanche. Era un argomento tabù. Non lo lasciavo avvicinare al telefono. Gli intercettavo le chiamate. I suoi ragazzi morivano uno dopo l’altro…Un argomento tabù…Ma una mattina lo sveglio, gli porgo la vestaglia e lui non riesce ad alzarsi. E non riesce a dire una parola…Aveva smesso di parlare…Aveva gli occhi grandi grandi…Di paura, per la prima volta…Sì. Ci restava ancora un anno…Durante tutto quell’anno ha continuato a morire…Ogni giorno peggiorava, e senz’altro capiva che anche i suoi ragazzi stavano morendo…Dovevamo convivere anche con questo…Con questa idea…E la cosa ancora più insopportabile era che nessuno sapeva niente di niente. Dicono: Černobyl’, scrivono: Černobyl’. Ma nessuno sa cos’è…Siamo tra i primi ad averne iniziato la scoperta, ad averne intravisto l’orrore…Da noi, ormai, tutto si svolge in modo diverso rispetto agli altri: non nasciamo come gli altri, non moriamo come gli altri. Perché non mi chiede come si muore dopo Černobyl’? L’uomo che amavo, che amavo a tal punto che non avrei potuto amarlo di più neanche se l’avessi messo al mondo io stessa, stava trasformandosi sotto i miei occhi…In un mostro…

Qualcuno poi è ritornato, ma i cani si erano inselvatichiti, le case erano state razziate, la terra continuava a essere inzuppata di cesio e la verdura avvelenata, l’acqua contaminata. Gli Stalker portavano i turisti a Pryp”jat’ perchè vedessero le vestigia di un Impero in decadenza e provassero l’ebbrezza di una terra rigogliosa trasformatasi in un non luogo saturo di stronzio. Eppure la foresta, quella era bellissima, rigogliosa, verde, come se non fosse successo niente. Dov’erano le radiazioni? Dov’era la morte?

Perché partire poi? È un bel posto! È tutto un germogliare e un fiorire. Dal moscerino al grosso animale, tutto vive. […] Qui tutto vive. Ma proprio tutto! La lucertola vive, la ranocchia vive. E vive anche il lombrico. E ci sono anche i topolini campagnoli. C’è di tutto! Soprattutto in primavera è una meraviglia. Mi piace quando fioriscono i lillà. E il profumo del ciliegio selvatico.

Preghiera per Černobyl’ di Svetlana Aleksievič (edizioni e/o, traduzione dal russo di Sergio Rapetti) è una raccolta di testimonianze, il più potente e lacerante che io abbia letto sul disastro nucleare. Il più vero e il più sfacciato perché non è fatto di rapporti ufficiali pieni di numeri imbroglioni, di versioni di comodo vagliate dalla censura, ma di racconti crudi, nostalgici e stranianti di donne e uomini, bambini e bambine la cui carne e la cui anima è stata marchiata per sempre dall’atomo e dalla cieca, fanatica esaltazione di partito. Qui dentro c’è la delusione di chi si è ammalato, la disillusione di chi aveva creduto, l’ostinazione cieca di chi ancora crede, l’amarezza di chi non è stato creduto. C’è la solitudine disperante delle donne giovani e la tristezza delle donne anziane – le babushka – che piangono su tombe e fantasmi ma hanno smesso di gridare e hanno trovato una pace dolente perché sono tornate a casa e anche se le chiamano residenti non autorizzate vivono lo stesso da sole sfidando razziatori e animali selvatici. Hanno il loro orto, le loro conserve, la loro vodka fatta in casa e gli spettri dei loro morti con cui parlare. E non chiedono altro che questo, perché c’è un legame potente tra l’essere umano e la terra che nessun atomo, nessuna fissione possono scindere.

E tu, tesorino mio, hai capito la mia tristezza? La porterai alla gente, ma forse io non ci sarò già più. Mi troveranno sotto terra…Sotto le radici.

Su Spreaker trovi il podcast con la lettura di un brano tratto dal libro:

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