“Non mi considero una scrittrice della Shoa visto che appartengo a coloro che sono vissuti in quel periodo e si sono salvati”. Lia Levi, 90 primavere il prossimo 9 novembre, in effetti non ha mai indagato l’orrore dei campi di concentramento. O meglio, lo ha indagato isolando nelle sue storie il prima con il travaglio morale e i tentativi di fuga e il dopo con gli incubi della memoria e la vita quotidiana dei sopravvissuti.
La sua produzione (una cinquantina di titoli tra romanzi per adulti e letteratura per l’infanzia) sconta un’approssimazione che, dentro la retorica pur nobilissima del Giorno della Memoria, spesso la relega a mera testimonianza. Lia Levi è anzitutto una scrittrice. Non licenzia le sue pagine sul filo di un premeditato engagement perché a dominarla è la passione per la fabula. In altre parole: è la realtà reinventata dalla letteratura la sua unica bussola. I temi che affronta certo coincidono con uno dei frangenti più drammatici della nostra storia nazionale ma la vocazione è sempre romanzesca ed è quella semmai che assume valore documentale.
In libreria, fresco di stampa per e/o, si aggiunge Ognuno accanto alla sua notte. Come in un ideale mosaico suddiviso in pezzi da incastrare, l’autrice ritorna alla Roma fascista funestata dalle leggi razziali e mette in scena tra gli altri un conflitto generazionale sulle responsabilità dei padri ebrei di non aver fiutato e magari sventato il pericolo. L’ossessione dell’autrice si rinnova anche con
Il giorno della memoria raccontato ai miei nipoti, testo dedicato ai lettori più piccoli che esce per la storica collana II battello a vapore di Piemme. Nel suo Questa sera è già domani, che gli studenti dello Strega Giovani hanno premiato nel 2018, si legge: “Per un ebreo la memoria è uno strumento più forte e lancinante che in ogni altra persona”. Ecco, la memoria spiega allo stesso tempo biografia umana e letteraria.
Lia Levi nasce a Pisa nel 1931 da una famiglia piemontese di origine ebraica. Vive all’età di sette anni l’infamia della discriminazione razziale. Dopo l’8 settembre 1943 riesce a salvarsi dalle deportazioni nascondendosi con le sue sorelle in un collegio romano di suore. Alla fine della guerra è la madre a redimerla da ogni pregiudizio: “Lia, tu non sei una bambina ebrea. Sei una bambina e basta”. Non a caso il debutto della scrittrice, nel 1994, si intitola Una bambina e basta. Il libro è oggi un classico, tra i più adottati nelle scuole. Del resto il timbro stilistico dell’autrice è consacrato alla semplicità: concetti brevi, parole chiare. “La semplicità è una complessità risolta” ama dire Levi citando lo scultore Brancusi. Una bambina e basta è uno dei primi testi ad affrontare il trauma che le persecuzioni ebbero sui bambini ebrei in Italia, anche tra coloro che non furono deportati nei lager, costretti a lasciare le loro case e a vivere nascosti nel terrore, spesso separati dai genitori. “A Torino frequentavo un a scuola pubblica. Un giorno mia madre mi disse che non potevo più andarci. Non mi spiegò le ragioni ma nell’atmosfera di artificiosa normalità che celava ciò che stava accadendo, io percepivo l’angoscia. Così ho conosciuto il mondo”.
La ferita resta aperta nella vita adulta e si riacutizza alla metà degli Anni 90 quando l’autrice abbandona la carriera giornalistica per dedicarsi alla narrativa nell’infelice condizione di rendere testimonianza delle leggi razziali del 1938 in un clima a suo dire teso alla minimizzazione. Nel 1967 aveva fondato il mensile di informazione e cultura ebraica Shalom, diretto per trent’anni con la missione di spiegare le ragioni dello Stato di Israele. La rivista, tra l’altro, fu tra le prime a dare spazio ai grandi scrittori ebrei: Roth, Singer, Yehoshua. Nel suo appartamento che affaccia su una delle più belle piazze di Trastevere a Roma, Lia Levi – che usa l’Ipad ma scrive i suoi testi rigorosamente a mano – è una donna che sfida la sua veneranda età attraversando instancabile la penisola con le sue sneaker bianche e casacche floreali. Un’esistenza intera consacrata a tessere un filo capace di passare dalla grande storia alla storia che si fa piccola, che entra nella coscienza delle persone, nei corridoi delle case, e che da lì torna a farsi grande, in un circolo continuo.