“Stanno divisi nel mondo, / ognuno accanto alla sua notte, / ognuno accanto alla sua morte”. Il nuovo libro di Lia Levi in uscita il 13 gennaio per i tipi di e/o è riassunto dai versi di Paul Celan riportati in esergo. Tre versi come i tre narratori delle tre storie che compongono Ognuno accanto alla sua notte, che dalla poesia trae lo stesso titolo. Doriana, Gisella e Saul sono estranei “divisi nel mondo” che, nelle pagine della esile cornice che contiene i racconti, non sospettano di essere portatori di narrazioni convergenti verso una medesima storia, quella che dalle leggi razziste del 1938 conduce fino alla grande retata del 16 ottobre 1943 a Roma. E’ diffusa reazione tra le vittime di ogni tempo ritenere di possedere l’esclusività del dolore. Ognuno accanto alla sua notte, fin dal titolo, mostra la futilità di questa convinzione in fondo consolatoria, affidando invece a ognuno una storia da raccontare. C’è Doriana, nipote della custode di un palazzo che ha visto compiersi la deportazione e, con poche parole d’istinto, ha aiutato a salvare una vita; c’è Gisella, che racconta una storia che non nasce dal vissuto ma è stata “captata nell’aria” e trasmessa “perché è una fiaba sull’amore”, “una piccola luce in un mondo che pareva popolato solo da ombre viventi”; c’è infine Saul, figlio di un sopravvissuto ad Auschwitz che eredita dal padre un peso intollerabile, un segreto che invece di spegnersi con il tempo viene amplificato dal passaggio tra generazioni segnato con i suoi silenzi, le sue incomprensioni, le sue fughe.
Nella struttura del libro il collante, ben più della cornice, è costituito da un intreccio discreto ma saldo di temi, personaggi, luoghi e oggetti. Dal punto di vista narrativo è una scelta fondamentale dell’autrice, che in questo modo getta sulla materia del racconto una rete che cattura insieme le tre storie e allude a una quarta, a una quinta e a tante altre possibili. Il libro è un trittico anomalo non tanto per la mancanza apparente di predella e cuspide, quanto perché fa posto, nello spazio infinitamente profondo del non scritto, per innumerevoli altre notti, cioè narrazioni, tutte vere. I riferimenti lanciati qua e là sono comparse, che conosceremo essere più avanti protagonisti di un altro racconto, oggetti come l’antologia Americana di Vittorini, che affiora in due storie, oppure situazioni, come la reazione degli ebrei alla caduta del regime il 25 luglio 1943, il ricatto dell’oro, la mattina della deportazione di massa.
Dopo l’introduzione delle leggi razziste, il commediografo Giulio Limentani è costretto all’esproprio di quello che scrive. Lino, libraio con il sogno ma non la capacità di diventare scrittore, si offre a fare da prestanome, in modo che Giulio possa continuare a lavorare scrivendo testi teatrali. La lacerazione intima che sconvolge Giulio è la rinuncia a quello che è più intimamente proprio in una situazione in cui non ha davvero scelta. Lino non è interessato ai soldi e aiuta Giulio corrispondendogli i guadagni ottenuti, nello stesso momento però si impossessa dell’autorialità del vero autore che a lui è vincolato. Giulio dipende da Lino, che gli sottrae le parole in una contraddizione che sembra senza via di uscita. Una contraddizione di ordine diverso riposa al centro della storia di passione tra i giovani Colomba e Ferruccio. Lei è una ragazza del ghetto, lui il figlio del fiduciario del Fascio della zona centro-Roma ma dice di non essere fascista, cita versi di Saba e si abbandona alla passione di uno di quegli amori giovanili che sono eterni forse non per sempre, ma nei momenti in cui vengono vissuti, sì. La contraddizione è anche di Colomba, dapprima corteggiata in modo asimmetrico, poi pienamente coinvolta nella passione, che dopo il 25 luglio, nel timore che qualcosa di brutto possa capitare a Ferruccio e alla famiglia di lui, dice: “Quasi quasi non ero contenta che fosse caduto il fascismo, lo capisci? E’ stata una cosa orribile”. Lacerante e contraddittoria, nel terzo racconto, è anche la relazione di Graziano con il padre Vittorio Sabatello, consigliere della comunità: continuare gli studi oppure preferire la formazione fuori dalle scuole di regime? Rimanere in attesa prudente o scegliere l’azione? E infine, nelle ore che precedono la retata, scappare e nascondersi finché si è in tempo o avvertire più persone possibile?
I tre racconti muovono da situazioni diverse ma dirigono tutti verso una sola data, quella tragica del 16 ottobre, esito ultimo di un processo cominciato con l’esclusione decretata dalle leggi antiebraiche del 1938. Da molti anni e da molti libri, dall’esordio con il fortunato Una bambina e basta fino a Questa sera è già domani, Lia Levi racconta non l’ultimo atto della deportazione, nei campi della morte in Germania e in Polonia, ma la dinamica dell’esclusione che lo precede e lo prepara. Anche in Ognuno accanto alla sua notte viene messo a tema non la fabbrica dello sterminio, ma l’interruzione della quotidianità con la privazione, da un giorno all’altro, dei diritti e l’avvio della persecuzione. E’ una scelta personale che ha forse a che fare con la storia dell’autrice, negli anni della Shoah bambina nascosta nella Roma controllata dai nazifascisti, ma è allo stesso tempo una scelta didattica attualissima, perché le camere a gas sono spesso difficili da spiegare e da capire, lontane nello spazio e sempre più anche nel tempo, mentre la rottura della normalità in grado di innescare, come un domino, tragedie via via più grandi, ci è più vicina, quindi anche più comprensibile e porta con sé echi attualissimi, in grado di aiutarci a vedere meglio alcune tragedie del presente. Ma c’è di più: è la quotidianità, un’esigenza umana che neppure la guerra e la persecuzione possono cancellare completamente, protagonista del volume. Come Anne Frank racconta della sgranatura dei piselli e della preparazione della marmellata di fragole nell’alloggio segreto, anche nel libro di Lia Levi non sono gli eventi eclatanti a prendere la scena, ma le storie di vita di ogni giorni, in cui le priorità sono di volta in volta cullare il fratello piccolo, l’amicizia con una compagna, il prezzo delle albicocche. La reazione di Colomba alla caduta del fascismo – felicità mista a preoccupazione per Ferruccio, figlio di un federale – è perfettamente comprensibile perché perfettamente umana.
Come nel capolavoro diretto da Akira Kurosawa Rashomon, anche in Ognuno accanto alla sua notte racconti diversi tracciano i contorni di una medesima storia che li comprende, ma che non è da questi esaurita. Qui però, diversamente da quanto accade nel film giapponese, l’accento non è posto sulla contraddizione tra i racconti, che sono al contrario tutti possibili. In essi vengono descritte però tensioni e contraddizioni interne, come abbiamo visto, che modulano in direzioni diverse la lacerazione generale tra principio di realtà e ideale. In Giulio, privato delle proprie parole dall’amico che lo protegge, vediamo la tensione tra il legame con la moglie malata, nei cui confronti si sente responsabile, e il desiderio crescente di azione con l’entrata in clandestinità. La storia di Colomba e Ferruccio sembra alludere alla possibilità di rompere il principio di realtà grazie a un amore fiabesco, totale e impossibile. Ma è nel terzo racconto che realtà e ideale si fronteggiano in modo più duro: Graziano ritiene il consiglio della comunità conciliante nei confronti del regime prima e dopo l’8 settembre e, con entusiasmo tutto giovanile, sceglie la via dell’impegno distribuendo insieme ad alcuni compagni manifesti antifascisti. “Tu con i fascisti ci parlavi. Io non l’ho mai fatto”, rimprovera al padre Vittorio, consigliere della comunità. Graziano ha ragione, ma ha ragione anche il padre perché, tanto più quando si svolgono ruoli di responsabilità, con il principio di realtà bisogna continuamente fare i conti. La fiducia riposta nella presenza a Roma del papa, il dissidio con il rabbino della comunità, l’inganno dell’oro, le razzie presso l’anagrafe e la biblioteca avvicinano a un epilogo in cui padre e figlio si troveranno contemporaneamente uniti e divisi per sempre.
In Ognuno accanto alla sua notte, come in tutti gli altri precedenti libri, la scrittura di Lia Levi è fresca e limpida, mai involuta, tutta modulata sulla base del dialogo diretto e indiretto. Il dialogo indiretto, con cui vengono espressi i moti dell’animo, sgorga quasi sempre naturalmente da quello diretto e viceversa, nel fluire ininterrotto caratteristico della forma del racconto, che è l’oralità. Lo stile è pacato, la lingua piana, senza angoli acuti, ascese o immersioni repentine. Dalla pluralità dei racconti, emerge in modo cristallino l’unità della storia perché “il dolore in fondo ha risvolti diversi, ma la voce, la voce vera è una sola”. Questo dolore assume talvolta, con Saba, un “viso semita” ma “è eterno, / ha una voce e non varia” perché il suo belato disperato richiama il “mio dolore”, gli è “fraterno”. Per questo va raccontato ai figli e ai figli dei figli. E i figli, dice Lia Levi, in questo momento siete voi.