Da qualche mese è uscito in Italia per E/O Ultimo discorso alla società proustiana di Barcellona, la raccolta di poesie dello scrittore francese pluripremiato Mathias Énard, nella traduzione di Lorenzo Alunni e Francesco Targhetta. Divisa in tre sezioni tematiche, questa pubblicazione, decisa di concerto con l’editore Inculte che l’ha pubblicata nel 2016 in Francia, può essere compresa come un ideale taccuino semi-autobiografico di appunti preparatori, lungo più di venti anni di carriera, in dialogo con la maggiore produzione in prosa dell’autore, ma non per questo meno interessante per stile e argomenti.
Ritornano infatti i luoghi terribili e affascinanti come Beirut della guerra civile de La perfezione del tiro, oppure la Polonia bianca di neve, “carica di cenere” si legge, e i Balcani ebbri come il console di Francia immortalato nella prima poesia della sezione, e che richiama il romanzo-fiume storico sui genocidi e le battaglie europee di Zona, ad oggi forse il capolavoro dell’autore. C’è poi la Spagna, di Barcellona e della Barceloneta, inquietata dalla gioventù della Primavera Araba di Via dei ladri qui anche immortalata tra la notte piena di “temor” e la “soledad” di certe albe andaluse. E in generale c’è, in questi versi tanto personali quanto si direbbe collettivi – ovvero legati all’incontro tra culture e in forma più estesa civiltà – l’attrazione per un discorso orientalista che ritroviamo potentemente in Bussola, ma che era già stato esplorato “nel piccolo” nella suite su Michelangelo in esplorazione a Istanbul in Parlami di battaglie, di re e di elefanti.
Di fronte a questi territori desolati da un lato e ricchi di influenze dall’altro, gonfi di morte così come di erudizione, c’è ovviamente l’Io del Poeta che non necessariamente è quello dell’autore, un Io in viaggio e in transito – come su i treni verso la Russia – ma anche colto in una residenza temporanea, che parla e viene parlato da varie lingue, un Io-moltitudini spesso scombussolato, che “non conosce il viaggio / più dell’amante / le labbra dell’amata”, e che quindi vede il viaggio come un’esperienza di erotismo quasi sempre rimandato, come nel caso dell’infatuazione perenne di Franz, il protagonista di Bussola, per la bramata Sarah, che fa da fil rouge della narrazione.
La raccolta di Énard si conclude infine negli ultimi testi con un omaggio a Proust, la comparsa di Juan Carlos Onetti, e del poeta (da noi poco noto, ma grande nel mondo iberico) Leopoldo Maria Panero, nell’esaltazione di quella che è chiamata una “poetica dei costretti a letto” che pare in contraddizione con lo spirito generale dell’opera. Ma di questa raccolta, anticipando anche qualcosa del nuovo romanzo uscito in Francia a ottobre per Actes Sud, Le Banquet annuel de la Confrérie des fossoyeurs, ho parlato con l’autore in questa conversazione.
Il libro raccoglie tante sezioni che danno, diciamo, affacci diversi benché affini su vari luoghi e chissà tempi della tua produzione in prosa: si passa da Beirut alla Polonia, dai Balcani, fino alla Russia e a Granada, da Lisbona ovviamente a Barcellona, con una tua grande capacità, anche nel verso, di far sentire il luogo di una cultura (si direbbe con Bhabha), e allo stesso tempo una, potremmo dire, potenza di rendere l’ubiquità, di rilanciare sempre un altrove presente: “Sono di ritorno a Damasco / chissà / fatico così tanto a dire dove mi trovo”, scrivi nella prima poesia. Che tipo di percorso ideale ti sei immaginato, una volta raccolti i testi? E come questo percorso ha a che fare con la tua produzione di romanzi, come è forse evidente?
Queste poesie fanno parte di 25 anni di scrittura in modo rapsodico, ovvero non cronologico, e nell’edizione francese c’è una nota in cui si spiega il perché di questa organizzazione. Non era nato come libro unico, alcune poesie erano uscite per rivista, altre erano poesie d’occasione o ecfrastiche. L’editore delle edizioni Inculte mi ha chiesto però di recuperare la mia produzione poetica, e io l’ho incaricato di aiutarmi a fare una divisione tematica. Sono divise tematicamente più che cronologicamente, ho diviso il libro un po’ in differenti cassetti “tematici”.
Che relazione hanno dunque con il tuo scrivere in prosa? Quando lei hai scritte?
Le considero poesie molto narrative, prosaiche, sono come appunti che scrivevo durante la stesura dei romanzi, abbozzi di scene, vite e luoghi. Per esempio, il poema “Beirut” è sicuramente legato al primo romanzo, così come alcune poesie sulla Polonia e sui Balcani sono come annessi ideali di Zona. Altre ancora sono più legate alla mia esperienza con Barcellona o con la Russia, a volte le anticipano cronologicamente.
Il libro, abbiamo detto, presenta chiaramente alcune tematiche affini alla tua produzione: il racconto delle zone di conflitto, dei genocidi, delle battaglie contemporanee, connesso però a passioni dilanianti e infatuazioni intellettuali (e aggiungerei personali), quel misto di dolore-morte nelle vite che racconti, ma anche una certa gioia disperata e lussuriosa del vivere. Sono tematiche potremmo dire “epiche” – l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese di ariostesca memoria – che tu hai la capacità di rendere contemporanee per la storia europea di oggi. Che ne pensi?
Io credo che le tematiche del libro siano infatti molto attuali. Oggi siamo in questa sorta di bolla tematica chiamata “Covid19” e pare che non parliamo di altro. Se ci pensi, però, il tema della violenza in Libano è un tema ben presente benché sia oramai atavico.
Ed è sicuramente un libro che ha al centro l’Europa, l’Europa oggi battuta dalla pandemia ma anche dal terrorismo.
Forse questo libro può essere considerato come un viaggio tra le guerre più tristi legate all’Occidente europeo. Anche se poi c’è un tema più burlesco e euforico nell’ultima parte, più parodico [N.d.R.: l’intervista si è tenuta pochi giorni dopo dell’attentato al professor Samuel Paty in Francia, prima goccia di un’ondata di violenza terroristica che ha colpito il Paese]
Un’altra delle caratteristiche affascinanti nel leggere questa raccolta è quella del multilinguismo, che usi fin dall’esordio del testo “Beirut” in modo innovativo: mescoli francese con spagnolo, con l’arabo, il catalano. Che sfida impone il multilinguismo a uno scrittore europeo o francese, sia in prosa che in poesia?
Il multilinguismo più che una sfida è una risorsa che ti permette di moltiplicare il senso di quello che scrivi, per convocare davvero culture diverse in uno stesso discorso, su uno stesso piano. Mi interessa molto, anche perché sto tenendo un corso all’Università di Berna sia sull’aspetto sincronico del multilinguismo (un autore che usa molte lingue nello stesso testo) sia su quello diacronico (un autore che usa due lingue differenti nel corso della propria produzione, o una differente da quella di nascita).
Certo ci sono figure prestigiose nel Novecento come Nabokov, Beckett, Canetti stesso…
Sì, c’è un bel aneddoto su Elias Canetti. La lingua dei genitori di Canetti era il tedesco, però la lingua dell’infanzia era da un lato il ladino e dall’altro il bulgaro delle sue nutrici. Queste gli raccontavano storie di terrore e fantastiche, in bulgaro. Canetti la ricorda invece, molti anni più tardi, in tedesco, cosa che è impossibile, perché nessuno gliele hanno mai raccontate in quella lingua! In ogni romanzo, i personaggi parlano la lingua dell’autore, un autore che è come un traduttore simultaneo all’interno del testo. Poi ci sono altri che, come ad esempio in Under the Volcano Malcolm Lowry, usano lo spagnolo con un effetto di iperrealismo, per raccontare quello che il personaggio vede attorno a sé.
E in Francia?
In Francia, c’è stata per molti anni come sai la questione del francese come lingua di dominio coloniale, sebbene gli scrittori francofoni arabi usino davvero poche parole in arabo. Ne La via dei ladri io ho invece scelto di usare l’arabo così com’è, e non è stato facile, all’interno della pagina editoriale. Ho dovuto far inserire delle immagini per non scombinare il testo!
Il libro non è costellato solo di luoghi e popoli, ma anche di personaggi che credo siano fondamentali per comprenderlo: non solo il Proust che viaggia con l’immaginazione, ma anche l’Onetti di quella “poetica dei costretti a letto”, o ancora il grande Leopoldo Maria Panero, da noi in Italia parecchio ignorato. Che ruolo hanno questi numi tutelari all’interno di esse e in generale per la tua produzione – o altri come Blaise Cendrars, le cui eco ritornano spesso in questa raccolta?
Vedi, innanzitutto uno potrebbe confondersi dicendo che la scrittura è il viaggio e viceversa, anche in questa raccolta. Ma non è sempre così: per esempio autori come Ángel Vázquez – autore poliglotta che amo molto e che ha passato molta della sua vita dimenticato a Tangeri – Juan Carlo Onetti – che scrisse negli ultimi anni della sua vita a letto a Madrid fino a morirci nel 1994. C’è qualcosa di meraviglioso in tutti loro: l’impossibilità del viaggio non è infatti l’impossibilità di creare. E il viaggio è sempre possibile. In quel testo, volevo anche giocare parodicamente con l’accademia, perché si presenta ironicamente come questa comunicazione alla Società Proustiana di Barcellona – che realmente esiste, ma poi diventa una sorta di rivendicazione contro l’utopia del viaggio a tutti i costi…
Nella tua produzione c’è questo aspetto parodico nei confronti dell’accademia, e anche questa idea del viaggio come incontro e conflitto tra culture, che non si traduce necessariamente in spostamento, in esotismo… Parliamo, affrontando queste ultime tematiche però dell’ultimo romanzo, Le Banquet annuel de la Confrérie des fossoyeurs, uscito da poco in Francia. All’apparenza un romanzo molto francese e locale, ambientato nella zona campestre di Niort, nella Nuova Aquitania. Perché hai deciso di scrivere della condizione “rurale” della Francia del XXI secolo?
Volevo prima di tutto, più che raccontare della campagna del XXI secolo, ritornare al terreno della mia infanzia (sono nato a Niort), a mio modo, dopo tantissimi anni di assenza all’estero. Mi piaceva così entrare in un terreno molto francese, dal punto di vista di questi paesini rurali dove apparentemente non accade proprio niente. Volevo però immaginarmeli in un altro modo, come se non li conoscessi, come appunto se fossero luoghi esotici, sconosciuti in modo differente rispetto ai luoghi lontani e complessi. Da lì l’idea di iniziare con la figura di un antropologo che deve studiarne la vita, venendo dal di fuori. E da lì anche l’idea di apporre una mappa all’inizio del libro.
Hai toccato nuove tematiche con questo nuovo libro? Nuove esplorazioni, appunto?
La cosa che più mi ha affascinato di questo libro è lavorare sul tema della reincarnazione. Per fare una ricerca su di un luogo gli antropologi di solito studiano anche le genealogie familiari, risalendo di generazione in generazione fino agli avi remoti. Io volevo studiare queste genealogie dal punto di vista… della reincarnazione!
Ho notato che ad esergo citi proprio Budda, infatti…
Il tema della reincarnazione ti permette di raccontare anche dal punto di vista degli animali del posto, e della loro vita quotidiana, della vita di una volpe o di un cinghiale, trovando legami nuovi tra le cose. Questo mi permette di lavorare anche su una tematica diciamo “climatica”, del rapporto uomo-Natura in una globalità complessa, in una relazione anche oltre la nostra cultura, una relazione simbiotica come quella dei funghi con gli alberi.
Potremmo dire che è una delle ultime battaglie della civiltà umana, la lotta con e contro la Natura, e per questo è consona alla tua precedente produzione, non trovi? Un allargamento di prospettiva.
Certo. Oggi mi affascinano i vincoli simbiotici tra uomo e natura: vincoli di vita e di morte che non riguardano solo l’essere umano.