Il romanzo borghese è oramai stato declinato in mille modi. Uno di questi è il modello media-alta borghesia progressista anglosassone alla McEwan (e Ian, sia stampato a lettere cubitali, è nostro idolo assoluto almeno fino a Espiazione). Un impianto realistico e psicologico spesso con calice di vino sul tavolo, buone letture sul divano, e imponenti crucci etici assoluti a penzolare sulle vite “comuni” dei protagonisti. Inutile dire che Colloqui di pace di Tim Finch (Edizioni e/o) ne è un naturale sottoprodotto politicamente labour (non quello di Corbyn, ma quello blairiano-giddensiano) e culturalmente aggiornato all’attualità. Nonostante la matrice evidente, Colloqui di pace è però un’opera intimista davvero ben merlettata nei particolari e scalpellata nell’affresco generale. Intanto la forma: una sorta di diario in prima persona del protagonista, Edvard Behrends, capo diplomatico di un negoziato di pace tra due fazioni probabilmente arabe, sicuramente in guerra tra loro, che condividono la fede musulmana come due piani diversi di un albergo del Tirolo immerso nella neve. Con loro anche Edvard e i suoi colleghi che ogni mattina vanno a fare lunghe passeggiate tra monti e laghi, poi colazione assorti tra giornali e libri, infine di nuovo al centro di un largo salone con luce naturale per mediare tra nemici, diapositive di torture, massacri, kamikaze esplosi proiettati su un grande schermo bianco. Edvard, di origini norvegese, tiene questo diario pressoché giornaliero, scrivendo ad una compagna che non c’è più. Il racconto del protagonista mescola così la confessione profonda di un’anima toccata dal lutto della morte, ma anche le riflessioni di colui che deve portare a termine un lavoro politico delicatissimo. Privato e pubblico si fondono così in un unicum naturalmente armonico con vette di lirismo estremamente indovinate come quando Edvard ricorda all’improvviso di non avere conservato un ricordo registrato della voce dell’amata morta (pugnalata vera al lettore, da lucciconi) o quando en passant cita un episodio storico di opposizione ambientalista clamorosamente riuscito contro Hitler. Nel sottotesto storico comunque si fa a pezzi Fukuyama e si mostra qualche sinistro scricchiolio critico sul business della pace, ma si gioca anche leggiadri con la memoria del cinema e della letteratura. Insomma, un romanzo intenso, sincero, riuscito. Voto (pacifico): 7+