Leeds è una città che non vuole fiorire. Ricoperta di neve tutto l’anno, dove il tempo s’inceppa, si arresta e torna indietro. Quando è l’ora che arrivi la primavera, la primavera smette di arrivare.
Leeds è una città dove la gente finisce nei buchi e i buchi finiscono dappertutto. Camelia vive a Leeds e suo padre è finito in un buco ed è morto. Anche Camelia finisce in un buco, insieme a sua madre, un buco diverso, che si apre nella loro casa, tra loro superstiti, un buco in cui vanno a finire tutte le parole e cominciano silenzi interminabili. Camelia abbandona lo studio del cinese, inizia a tradurre manuali d’istruzioni per lavatrici, raccoglie vestiti deformi dal cassonetto vicino casa e li indossa: maglie con tre maniche, pantaloni sbilenchi, abiti con degli strappi grossi come voragini. Poi un giorno incontra Wen alla fermata dell’autobus e qualcosa da qualche parte sembra fiorire.
A questo punto non racconto più niente, della storia. A questo punto dico che Viola Di Grado mi piace perché sa raccontare il silenzio ostinato e immutabile della neve, ma anche la violenza del linguaggio, la disperazione. E la sua scrittura mi piace perché è precisa ed eccessiva, ogni frase perfetta e dissonante, in grado di attrarre e respingere allo stesso tempo. L’effetto finale è che per centottantanove pagine ti sembra di sentire un pezzo di John Cage.