Proviamo a immaginare il nostro sconcerto di fronte a quelle che vengono comunemente chiamate strisce pedonali, o zebre. Non abbiamo strumenti per giustificare la loro presenza ai margini di un incrocio, a metà di un viale. Eppure qualcosa ci suggerisce la persistenza di un sistema, di regole più o meno condivise che fanno capo a quella sequenza di strisce bianche parallele alla strada.
Zyzo è un dodicenne che si avventura fuori dal territorio in cui vive, perché possiede il gusto per l’esplorazione e intuisce una connessione tra i simboli e i manufatti del passato; sa che gli uomini, gli adulti, avevano costruito la città molto tempo prima, che dovevano aver passato la vita a edificare, a mettere una sull’altra le pietre dei muri del castello o unire fra loro le travi di ferro del tepee.
Nel mondo ricreato da Michel Bussi e addensato nel romanzo La caduta del sole di ferro i particolari contano quanto il quadro d’assieme. In una Parigi spettrale (vista dagli occhi di Zyzo) le strisce pedonali non hanno più senso, gli alberi sono prigionieri dentro griglie di ferro che un tempo gli stranieri avrebbero definito tipiche, o addirittura pittoresche, e i simboli di una dimenticata grandezza (il Louvre e la torre Eiffel) sono stati ribattezzati – da Zyzo e dai componenti della sua tribù – castello e tapee.
Anche in una società azzerata da un’oscura infezione, da un veleno che non lascia traccia (nessuno ha capito da dove venisse, forse da un’altra galassia, forse era polvere di stelle morte spinta da un vento proveniente da oltre il cielo, almeno così ci hanno raccontato, ma altri parlano di esperimenti segreti di un pazzo…) la suddivisione fra individui consapevoli e inconsapevoli (fra ragazzi del castello e ragazzi del tapee) risponde a dei criteri inesplicabili, che hanno radici profonde, forse culturali.
Rimane il dato anagrafico ad accomunare gli abitanti del pianeta, dodicenni che al passaggio della polvere fatale occupavano il ventre materno e che per questo motivo sono scampati all’estinzione del genere umano. Bambini audaci, carnivori, guidati da un guerriero bruno, lungimirante, e da una guaritrice misteriosa, espressione delle forze invisibili, e bambini vegetariani, istruiti, che hanno avuto in eredità la storia del mondo, la responsabilità di custodire la conoscenza e lo sfolgorio dell’arte: le due tribù si studiano da lontano, si temono, ma è più la diffidenza a erigere una parete invalicabile, di supposizioni e leggende rimasticate.
Al sicuro nel loro ambiente, i giovani sopravvissuti orientano le proprie esistenze affidandosi ai moduli arcaici della natura; festeggiano il Birth Day, il solstizio d’estate, e la Serata del Santuario, il solstizio d’inverno, e assecondano la vita seguendo una pista che appare consolidata, che sia l’istintività dei bambini del tapee o la formulazione della permanenza dei bambini del castello. L’incomunicabilità garantisce l’equilibrio delle forze, finché Zyzo, un membro della comunità selvaggia, non riceve l’incarico di introdursi nel castello per carpire delle informazioni, per avvalorare o confutare dei sospetti, delle predizioni malevole. Zyzo si metterà in cammino e il contatto con i ragazzi del castello diverrà il resoconto di una relazione, di un’apertura verso l’ignoto che non preclude la condivisione o la rivendicazione di valori.
Il sapere custodito fra le mura antiche è il messaggio di un’umanità morente affidato alla generazione dei dodicenni; Zyzo fa la conoscenza con Alixe, regina suo malgrado, che lo prende sotto la sua ala protettrice e lo introduce ai rituali, agli obblighi, allo stile di vita dei bambini del castello. L’organizzazione, il senso del dovere, sconcertano il piccolo selvaggio, abituato a prendersi addosso la città, a esplorare le stazioni deserte della metropolitana, ad arrampicarsi sulle travi scoscese del tapee. Zyzo scoprirà via via che nel castello le competenze e i compiti sono suddivisi rigorosamente (a ognuno le proprie facoltà: i Sapienti sono il futuro, le Scimmie conservano la memoria e i Soldati hanno il compito di proteggere il clan) e che a dettare gli ordini del giorno e a fornire gli strumenti del sapere è una donna (Maria Luna) che compare, come in una sorta di video conferenza postuma, su uno schermo collocato in una monumentale sala del castello.
Il nuovo arrivato è formalmente prigioniero, anche se gli viene permesso di assistere alla conferenze, di intrattenere rapporti amichevoli con gli abitanti del castello; da ciò si evince che i giovani sapienti mirano a imporsi come astrazione dominante, coltivano l’utopia di un nuovo mondo, più bello, più intelligente, più ragionevole, profetizza la regina Alixe.
L’idea sublime, che non contempla alternative, riempie le giornate e induce a innocenti digressioni, ma l’anima del racconto (del romanzo di Michel Bussi) è fuoco incontrollato, deborda di accadimenti e avventure mozzafiato. Confluiscono verso l’esperienza “in terra straniera” di Zyzo le mai sopite diffidenze (alimentate da invidia, ignoranza, rabbia, paura…), la propagazione di un morbo che avvelena le specie animali, la presenza di una figura ancestrale, il Luponero, trait d’union fra la natura contaminata e l’infallibilità degli ecosistemi.
Ad arricchire La caduta del sole di ferro (oltre al filone aureo delle interpretazioni, che sondano i temi dell’ambientalismo, dell’accoglienza come attitudine salvavita), contribuisce un armamentario complesso e curatissimo di personaggi più o meno secondari, ingredienti singoli di cui è impossibile ignorare il contributo, la forza propulsiva. Fantasmagoria post day after, romanzo di formazione, fantasy urbano, romanzo d’avventura, sinfonia di un pianeta da ricostruire e da celebrare: La caduta del sole di ferro (primo volume, riuscitissimo, di una saga su un futuro chimerico e, fino a prova contraria, possibile) avvince e ossequia la tradizione (e il culto) della grande narrativa di evasione.
Le acclamazioni che salivano dal fiume si mischiarono a quelle che scendevano dal tepee, tutta una girandola di risate che immerse le silenziose vie della città in un’allegra sarabanda.
«Buon compleanno, selvaggetto mio».
«Buon compleanno, mia regina».
«Abbiamo tredici anni, siamo grandi, ormai!».
«Sì, molto più grandi di un anno fa».
Si baciarono teneramente mentre il cielo si illuminava di alti e variopinti fuochi d’artificio.
Visibili da lontano, lontanissimo, il più lontano possibile.
Come per far sapere a tutti, nel raggio di chilometri, che lì si stava costruendo un nuovo mondo.